Francantonio Genovese2

Genovese, il Pd voterà sì all’arresto

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Francantonio Genovese2Il partito democratico voterà favorevole agli arresti di Francantonio Genovese. E la posizione del Pd in giunta per le autorizzazioni a procedere è di maggioranza, visto che su 21 componenti ben 10 fanno parte del partito di Renzi. E’ quanto annunciato ieri, per bocca dell’onorevole Franco Vazio, durante la seduta di giunta che oggi all’ora di pranzo emetterà il verdetto prima che gli atti vadano alla Camera, che dovrà dire l’ultima parola, a scrutinio segreto, sulla vicenda giudiziaria del parlamentare messinese indagato nell’inchiesta sull’utilizzo dei fondi della Formazione Professionale. Su Genovese pende la richiesta della procura di Messina, accolta dal Gip De Marco, della custodia cautelare.
Questo il testo di giunta per le autorizzazioni durante la seduta di ieri dove l’onorevole Vazio, a nome del gruppo Pd, ha annunciato il voto favorevole all’arresto:
“La Giunta riprende l’esame della richiesta in titolo, rinviato da ultimo il 30 aprile 2014.

  Antonio LEONE (NCD), presidente e relatore, informa i colleghi che il deputato Genovese ha integrato la documentazione già trasmessa in allegato alla sua terza memoria difensiva, accompagnandola con una breve nota introduttiva. In particolare, come aveva preannunciato nella sua audizione, ha inteso consegnare il verbale della seconda udienza (29 aprile 2014) dedicata all’esame in sede dibattimentale di un consulente dell’accusa, dottor Barreca, ad integrazione del verbale relativo alla prima udienza dell’8 aprile 2014, già a disposizione della Giunta.
  Il presidente La Russa lo ha pregato di precisare che tale integrazione documentale non costituirà motivo di rinvio della deliberazione finale che, in base all’organizzazione dei lavori definita nello scorso ufficio di presidenza, è prevista nella giornata di domani.
  Non essendovi richieste di intervento, passa quindi ad illustrare la sua proposta.
  Premette che essa intende fondarsi sulla prassi applicativa dell’articolo 68, secondo comma, della Costituzione, che affida alla Camera di appartenenza la decisione sulla concessione o il diniego dell’autorizzazione sulla base di due criteri valutativi consolidati. Il primo parametro è la sussistenza o meno del «fumus persecutionis». Il secondo parametro discende dal bilanciamento tra due valori di primaria rilevanza costituzionale: l’interesse al pieno esercizio della funzione giurisdizionale nei confronti di tutti i cittadini e l’interesse alla salvaguardia dell’integrità dell’organo parlamentare, a tutela di ogni indebita alterazione dell’equilibrio tra le forze politiche scaturito dal voto popolare.
  Sulla base dei precedenti parlamentari, la richiesta di eseguire la misura coercitiva deve infatti considerarsi inaccoglibile qualora si ravvisasse l’intento persecutorio delle persone che compongono l’ufficio giudiziario (cd «fumus persecutionis soggettivo»).
  Il medesimo orientamento deve essere assunto qualora – indipendentemente dall’intento soggettivo – si evidenziassero oggettivi indici sintomatici di un uso distorto delle funzioni giudiziarie, quali vizi procedurali gravi, o carenze nella motivazione o una manifesta infondatezza dell’azione giudiziaria, tali da rivelare un utilizzo abnorme degli strumenti giudiziari per colpire l’esponente politico ben al di là delle effettive necessità di giustizia (cd «fumus persecutionis oggettivo»).
  In altri termini, non è possibile escludere la sussistenza del fumus persecutionis quando l’iter del procedimento giudiziario si sviluppa in modo contraddittorio e senza assicurare il pieno rispetto delle garanzie processuali che il nostro ordinamento offre ai cittadini oggetto di indagini.
  A suo avviso, nel caso di specie, sono ravvisabili oggettivi indici sintomatici di una criticabile modalità di svolgimento del procedimento giudiziario, evidenziata in quattro specifiche argomentazioni.
  La prima riguarda la qualificazione giuridica delle condotte delittuose contestate, che appare oggettivamente errata e formulata con l’evidente intento di prefigurare fattispecie delittuose di maggiore gravità.
  L’Autorità giudiziaria, che ha sottoscritto l’ordinanza di custodia cautelare, ha riaffermato la sua ricostruzione giuridica dell’imputazione di peculato e truffa aggravata ammettendo che le posizioni del Tribunale del riesame e della Corte di cassazione sono in senso opposto. È dunque lo stesso giudice a confermare che la qualificazione giuridica delle condotte imputate è formulata in evidente contrasto con un giudicato cautelare interno: la Corte di cassazione ha derubricato – con riguardo all’ordinanza cautelare emessa nel procedimento parallelo – le condotte contestate da peculato a truffa aggravata, individuando dunque una fattispecie le cui pene edittali sono notevolmente inferiori (da 1 a 6 anni in luogo di 3 e 10 anni).
  Che vi sia dunque un vizio procedurale nell’impianto accusatorio su un aspetto di assoluta rilevanza – quale è la qualificazione giuridica della condotta come reato di maggiore gravità – appare confermato in ben due gradi di giudizio e, segnatamente in una sentenza della Cassazione passata in giudicato (Cass. VI sez. pen. n. 5889/2014).
  Ritiene che tale aspetto sia meritevole di approfondimento anche su altri due fronti.
  In primo luogo, a suo giudizio, non è certamente il modo migliore per assicurare il pieno svolgimento delle prerogative difensive quello di configurare – come pure avviene in alcuni passaggi dell’ordinanza – una sorta di «imputazione alternativa», sostenendo che, per le medesime condotte, l’onorevole Genovese potrebbe essere imputato, in modo alternativo e forse anche cumulativo, per peculato, truffa e riciclaggio. Un simile modus operandi potrebbe fare ritenere che talune imputazioni abbiano un carattere, per così dire, «provvisorio», e siano descritte in modo artificioso e meramente funzionale all’obiettivo di pervenire a pene edittali più elevate e rendere più plausibile la misura cautelare della custodia in carcere (oltre che aumentarne i termini massimi).
  In secondo luogo, appare condivisibile l’obiezione di Genovese secondo cui – dopo averlo raffigurato come capo di un’associazione che ha perseguito condotte illecite – non sono a lui addebitate le principali e più gravi condotte dei reati-presupposti, proprio allo scopo di contestare l’ipotesi delittuosa di riciclaggio, idonea a supportare la misura cautelare più estrema.
  La seconda argomentazione, che innegabilmente genera perplessità, è relativa all’intercettazione delle conversazioni del parlamentare, che appare essere avvenuta in forme palesemente illegittime. Il buon senso, prima ancora della disamina puntuale degli atti, suggerisce di aderire con estrema cautela alle affermazioni in ordine alla natura «casuale» di un rilevante numero di intercettazioni del deputato Genovese.
  Quest’ultimo, dinanzi alla Giunta, ha evidenziato che era lui il reale obiettivo dell’indagine individuato negli atti. Ha altresì fatto presente che sono state controllate utenze della sua cerchia di familiari e di collaboratori ed amici con i quali i colloqui erano abituali; in più anche un’utenza (intestata ad una società) di cui aveva uso esclusivo in prima persona era soggetta a controllo. Inoltre, ha segnalato che sono trascorsi ben due anni dalla sua prima conversazione captata all’ultima.
  Il giudice per le indagini preliminari si premura di precisare che «nel corpo della presente ordinanza non si farà alcun uso delle intercettazioni in parola né, ovviamente, nei confronti del parlamentare né, in sostanza nei confronti dei suoi interlocutori», unitamente all’affermazione che trattasi, in ogni caso, di conversazioni captate in via casuale (»obiettivo della captazione non era, neanche in termini di mera eventualità, il deputato»).
  Tuttavia, egli rileva esservi in ciò una evidente contraddizione: queste affermazioni risultano – sia pure in una fase successiva – palesemente smentite nei fatti: la Giunta è a conoscenza dell’iniziativa della procura della Repubblica volta ad attivare la procedura di richiesta alla Camera di autorizzazione all’uso processuale che – come noto – presuppone la rilevanza e la necessità processuale delle conversazioni captate.
  Come terza argomentazione, solleva forti dubbi sul limpido e corretto sviluppo del procedimento giudiziario e sul modo con cui è stato formato e provato l’impianto accusatorio.
  Ciò in quanto risulta difficile da comprendere il rifiuto di svolgere i dovuti accertamenti su un punto fondamentale della vicenda penale, ovvero sulla congruità dei corrispettivi pagati dagli enti di formazione per l’acquisto di beni e servizi dalla società Centro Servizi, riconducibile allo stesso deputato Genovese. Quest’ultimo – nei suoi atti difensivi prodotti dinanzi alla Giunta – ha dato prova della sua volontà di chiarire in sede processuale questo elemento di centrale rilevanza per la qualificazione delle condotte in termini di illecito penale. Non appare revocabile in dubbio quanto da lui dichiarato dinanzi alla Giunta, circa la produzione di perizie che dimostrerebbero, in maniera inequivocabile, la congruità dei canoni di locazione e l’erronea valutazione dei periti originariamente incaricati. Ovviamente, non deve essere la Giunta a valutarne il merito, ma sarebbe stato dunque opportuno concedere all’indagato tale possibilità, mentre le richieste di incidente probatorio sono state rigettate.
  Risulta altrettanto difficile comprendere come mai l’associazione a delinquere della quale l’onorevole Genovese è considerato il capo e il promotore, da un lato viene descritta come un’entità estremamente complessa e composita, mentre la prova (indiziaria) della sua esistenza viene poi ricavata da alcuni specifici e limitati rapporti intercorrenti fra soli tre soggetti: due enti di formazione, denominati ARAM e LUMEN, ed una sola società riconducibile all’onorevole Genovese (la Centro Servizi).
  Nell’ambito delle prospettazioni formulate dall’onorevole Genovese a sua difesa, merita sicuramente credito quella che contesta alla tesi accusatoria di negare – non si comprende su che basi – l’esercizio di una effettiva attività professionale debitamente remunerata e fatturata.
  Inoltre, in relazione ai reati fiscali, lo stesso magistrato in più occasioni evidenzia le carenze investigative, tali che si è reso necessario – secondo quanto comunica lo stesso onorevole Genovese – disporre un nuovo sequestro documentale nei suoi confronti.
  Pur non essendo un aspetto centrale ma solo idoneo a raffigurare un quadro ambientale di valenza generale, ricorda che un qualche elemento di condizionamento soggettivo del giudice procedente – in ragione del potenziale coinvolgimento nell’inchiesta di suoi stretti parenti – potrebbe essersi verificato, come si desumerebbe dal fatto che il medesimo magistrato ha formulato un’istanza di astensione per gravi ragioni di convenienza, sia pure rigettata dal Presidente del tribunale di Messina.
  Infine, come quarta argomentazione, evidenzia come le motivazioni addotte a supporto della richiesta di applicare la misura cautelare della custodia in carcere non trovino alcuna reale giustificazione né sul terreno strettamente penalistico (gravità del quadro indiziario, possibile reiterazione delle medesime condotte, proporzionalità all’entità del fatto), né sul terreno giuridico-costituzionale che consente il sacrificio del plenum assembleare solo ove si verifichino peculiari condizioni che giustificano la privazione della libertà personale del parlamentare.
  Siffatto ragionamento si aggancia al secondo criterio di valutazione che deve orientare la deliberazione della Giunta, rappresentato dall’esigenza di garantire l’integrità dell’organo parlamentare, esigenza che costituisce il fine prevalente dell’istituto costituzionale contemplato dall’articolo 68 della Costituzione, a tutela di ogni indebita alterazione dell’equilibrio tra le forze politiche scaturito dal voto popolare.
  In una logica di bilanciamento dei diversi valori costituzionali, pertanto, la tutela del plenum può essere sacrificata solo in presenza di casi particolarmente gravi, in cui la natura del reato, la pericolosità del soggetto, l’indispensabilità assoluta della privazione della libertà personale del parlamentare ai fini del corretto progredire del procedimento penale sono tali da prevalere sul principio dell’integrità dell’organo parlamentare.
  Preliminarmente, occorre prendere atto che le motivazione addotte nell’ordinanza a giustificazione delle esigenze cautelari di custodia in carcere, poggiano esclusivamente sulla sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione dei reati, e non anche sul pericolo di fuga e di inquinamento delle prove che devono, pertanto, ritenersi insussistenti.
  Sempre in via preliminare vale la pena evidenziare che dalla lettura dell’ordinanza non si comprende agevolmente quali siano gli elementi di fatto emersi dopo il mese di luglio 2013 (ovvero dopo la prima ordinanza cautelare, che non ha riguardato l’onorevole Genovese, ma i suoi parenti e collaboratori), giacché sono proprio tali elementi sopravvenuti che dovrebbero giustificare, oggi, la richiesta di applicazione della misura cautelare a carico di Francantonio Genovese, che peraltro, si è trovato nella grottesca condizione di convivere con la moglie, coinvolta nella medesima inchiesta e sottoposta agli arresti domiciliari con la prima ordinanza.
  Quanto, poi, alla gravità del quadro accusatorio, occorre rifarsi ad un sicuro fattore oggettivo: l’entità della pena edittale prevista per fattispecie delittuose ricostruite dall’Autorità giudiziaria, della quale la Giunta non deve evidentemente condividere le conclusioni, quanto la coerenza logica tra fatti, riscontri e qualificazione giuridica delle condotte.
  Ebbene, proprio in relazione a quest’ultimo aspetto non sembra possibile riconoscere legittimità alla qualificazione giuridica delle condotte per le quali si chiede la custodia in carcere, dovendosi invece propendere per ipotesi di reato la cui pena edittale è significativamente inferiore.
  Quanto, infine, alla valutazione dell’indispensabilità assoluta della privazione della libertà personale del parlamentare ai fini del corretto progredire del procedimento penale, va premesso che non spetta alla Giunta compiere una rivalutazione del materiale probatorio acquisito dalla magistratura al fine di verificare la sussistenza dei presupposti previsti dal codice di procedura penale per l’applicazione delle misure cautelari.
  Spetta però al Parlamento, in esercizio della sua prerogativa costituzionale, valutare se ritenere le esigenze cautelari prevalenti sul bene dell’integrità dell’organo parlamentare, e la necessità di un suo sacrificio.
  Nel caso di specie, la misura della custodia cautelare viene disposta in quanto appare «ragionevolmente certa la reiterazione delle medesime condotte criminose». A suo avviso, vi è una palese contraddizione nel ragionamento giuridico proposto nell’ordinanza nella parte in cui il magistrato sostiene che la condotta sarebbe connotata da eccezionale gravità in quanto realizzata senza operare in prima persona. Ma, proprio per questo, la probabilità – elevata o addirittura certa – di reiterazione della medesima condotta criminosa presupporrebbe l’attuale, piena operatività di tutta la catena di trasmissione che, tramite prestanome, enti di formazione e società di comodo, consentirebbe di tradurre le direttive del deputato Genovese in concreti atti di distrazione di denaro pubblico.
  Invero, lo stesso magistrato afferma che le misure cautelari disposte per le persone che hanno svolto questi ruoli sono state revocate sull’assunto del venir meno delle esigenze cautelari, e dunque negando la probabilità – né elevata né certa – di reiterazione della medesima condotta criminosa. Nel corso dell’attività istruttoria, la Giunta ha potuto appurare che per alcune di loro sono state rinnovate misure cautelari di minore rigore (divieto di dimora e arresti domiciliari, misure peraltro attualmente non in corso di esecuzione), ma la custodia in carcere – che non è in atto nei confronti di nessuno degli indagati, né lo è mai stata in passato – viene adesso chiesta per il solo deputato Genovese.
  Quanto al pericolo di reiterazione del reato, non può ignorarsi inoltre che lo stesso onorevole Genovese ha comunicato esservi una sola società a lui indirettamente riconducibile – denominata Training Service – che è ancora operativa nel campo della formazione professionale.
  Al riguardo, la nota difensiva precisa che i relativi progetti formativi sono stati ammessi al finanziamento nell’agosto del 2012, con la previsione di una prosecuzione per gli anni a venire, come poi avvenuto per il 2014, peraltro con un significativo decremento; l’ente ha un unico contratto (di locazione immobiliare) con una sua società e non ha partecipato ad ulteriori bandi, avendo in corso solo ed esclusivamente l’attività formativa riconducibile alla seconda annualità dell’avviso pubblico 20/2011, destinata ormai ad esaurirsi nei mesi a venire.
  Infine, non gli sembra convincente l’ordinanza nella parte in cui giustifica la misura cautelare della custodia in carcere sul piano della proporzionalità ed adeguatezza. Essa non solo è in parte motivata per relationem con riferimento alle misure cautelari disposte dal collegio per il riesame nei confronti del signor Elio Sauta ma – in più – non sembra valutare altre possibili diverse misure cautelari di minore intensità ed afflittività. Conclusivamente, desidera precisare che – pur avendo un proprio convincimento sull’istituto delle misure cautelari personali e sul loro rapporto con l’articolo 68 della Costituzione – la proposta che sottopone ai colleghi è maturata esclusivamente in relazione all’esame della documentazione processuale e non discende da alcuna pregiudiziale né politica né personale. E, dunque, proprio a seguito dell’approfondito studio del materiale documentale in possesso della Giunta, è arrivato a formulare la proposta di diniego dell’autorizzazione richiesta.

  Franco VAZIO (PD), nell’accingersi ad esporre, in modo ragionevolmente sintetico, le posizioni della sua parte politica, desidera svolgere alcune considerazioni preliminari.
  In primo luogo, tiene a precisare che esse non si sono cristallizzate in ragione di pregiudizi ideologici o preconcette logiche di schieramento, ma sono via via maturate solo ed esclusivamente sulla base dell’attento esame degli atti a disposizione della Giunta, sia di quelli trasmessi dall’autorità giudiziaria sia di quelli prodotti dal deputato interessato.
  In secondo luogo, ritiene doveroso chiarire che nessuna determinazione assunta dalla Giunta, né in un senso né nell’altro, può e deve sostituirsi all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità penali nelle sedi proprie. Non è certo competenza dell’organo parlamentare sviluppare un giudizio sulla fondatezza delle accuse e sulla colpevolezza o innocenza del deputato oggetto di indagine. Né si può assumere in questa sede una decisione sulle critiche che, in modo assolutamente legittimo, il deputato Genovese ha mosso nei confronti dell’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti e sull’intero impianto accusatorio.
  L’auspicio, ovviamente, è che l’indagato possa far valere in modo pieno e convincente le sue argomentazioni nell’ambito del procedimento penale ma, evidentemente, esse non possono incidere sulle valutazioni della Giunta, che è chiamata a svolgere un diverso tipo di giudizio.
  Venendo al merito della questione, ricorda che dalla notevole mole di atti processuali trasmessi alla Giunta, integrati dalla copiosa documentazione acquisita successivamente, anche su iniziativa del deputato Genovese, emerge un quadro estremamente articolato e complesso, ma sufficientemente approfondito.
  In particolare, ha esaminato con particolare attenzione i contenuti delle diverse note difensive prodotte dal deputato Genovese, proprio al fine di valutare la fondatezza delle censure mosse all’operato dell’Autorità giudiziaria.
  Un primo elemento di critica – peraltro fatto proprio dal relatore – si incentra sul rifiuto di acquisire prove prodotte dalla difesa in ordine alla congruità di determinati canoni contrattuali a carico di taluni enti di formazione.
  Al riguardo, pur essendo del tutto comprensibili le rimostranze di parte difensiva, occorre ricordare che tale facoltà non è legittima nel nostro ordinamento processuale, dal momento che l’incidente probatorio può essere richiesto nelle sole ipotesi in cui la prova riguarda un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile, ai sensi dell’articolo 392, lettera f), del codice di procedura penale. Il fatto che il giudice procedente non abbia accolto la richiesta di incidente probatorio non può, dunque, essere ritenuto sintomatico di un fumus persecutionis.
  Nelle sue memorie difensive, il deputato interessato ha altresì evidenziato il contrasto giurisprudenziale sulla qualificazione giuridica delle condotte a lui addebitate. Si tratta di una notazione inconfutabile, ma sostanzialmente marginale. Vero è che la qualificazione giuridica delle condotte in termini di peculato ovvero di truffa aggravata è oggetto di interpretazioni differenti da parte degli organi giudiziari competenti. Resta però fermo che nessuna diversa interpretazione ha invece riguardato i fatti emersi dalle indagini. Occorre prendere atto che essi sono passati al vaglio di diversi organi della magistratura che si sono espressi tutti per la fondatezza dell’impianto accusatorio. In più, dal contesto complessivo dell’ordinanza risulta in modo incontrovertibile che l’inchiesta ruota intorno al reato associativo e la qualificazione giuridica dei reati-fine può evidentemente essere oggetto di diversa valutazione in sede processuale, fermo restando che anche la pena edittale prevista per il reato di truffa aggravata legittima la misura cautelare della custodia in carcere.
  Un altro elemento di valutazione riguarda la potenziale lesione delle prerogative costituzionali concernenti il divieto delle intercettazioni telefoniche delle conversazioni dei parlamentari. Su questo aspetto, non vi sono ragioni per dubitare di quanto chiaramente esplicitato nell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, segnatamente nel passaggio in cui si afferma che l’ordinanza non si fonda in alcun modo sulle conversazioni intercettate né nei confronti del parlamentare né nei confronti dei suoi interlocutori.
  Ove la richiesta verrà formulata, resta comunque impregiudicata ogni decisione della Giunta in merito all’autorizzazione al loro uso processuale e, dunque, in merito alla natura casuale o meno dell’attività captativa.
  Infine, non considera condivisibili i sospetti di condizionamento dell’Autorità giudiziaria, che anzi appare al di sopra di ogni sospetto proprio in ragione della sua iniziativa di formulare un’istanza di astensione dal giudizio, elemento quest’ultimo che certamente smentisce ogni ipotesi di intento persecutorio in senso soggettivo.
  In merito all’accertamento dei fatti oggetto dell’inchiesta giudiziaria, ritiene che essi siano suffragati da diversi elementi. Non si riferisce esclusivamente al quadro probatorio sviluppato nell’ordinanza cautelare in esame ma anche alle pronunce in materia di misure cautelari da parte di organismi giudiziari diversi rispetto a quello che ha sottoscritto l’ordinanza.
  In particolare richiama le decisioni assunte dal Collegio per il riesame in merito alle misure cautelari reali adottate nei confronti del signor Salvatore Natoli e della signora Chiara Schirò, da cui è possibile acquisire una minuziosa descrizione dei meccanismi di funzionamento, dei presupposti e delle finalità dell’asserito sodalizio criminale. Gli stessi elementi sono rinvenibili anche in altre pronunce giurisdizionali e trovano riscontro anche sul piano documentale.
  Osserva che, al di là della congruità dei canoni e dei corrispettivi contrattuali erogati dagli enti di formazione – che saranno oggetto di apposita perizia – ciò che si ricava dagli atti di indagine è la piena coincidenza tra le due parti contrattuali, trattandosi di contratti stipulati tra società riconducili al medesimo soggetto. A tale proposito, richiama il fatto che le società di servizio e i centri di formazione appaiono sostanzialmente gestiti dalle medesime persone, il che legittima il sospetto che la Regione siciliana sia stata tenuta a pagare un surplus per effetto di un meccanismo interno fra soggetti che interagivano tra loro, talvolta legati da rapporti di parentela, e perseguivano i medesimi interessi economici in quanto facenti parte dalla stessa compagine sociale.
  Desidera richiamare, infine, l’attenzione anche su un altro elemento di valutazione, relativo al profilo temporale concernente il trasferimento di immobili. Il succedersi in tempi assolutamente ristretti dell’acquisizione di un immobile e l’affitto e il subaffitto dello stesso è difficilmente giustificabile sul piano delle prassi di mercato.
  Con riferimento all’ipotizzata reiterazione delle condotte criminose, invita a svolgere un duplice ordine di considerazioni. Il primo è di carattere generale. Dall’ordinanza del giudice per le indagini preliminari emerge che il prospettato pericolo di reiterazione delle medesime condotte criminose viene principalmente ricondotto, più che all’attività relativa agli enti di formazione, agli elementi caratterizzanti l’organizzazione criminale asseritamente gestita dal deputato Genovese. È infatti sulla complessità dell’organizzazione che si concentra l’attenzione del giudice che dispone la misura cautelare, il quale pone l’accento sull’esistenza di un’associazione costituita da soggetti che, senza autonomia di giudizio, rispondono a ordini e comandi, facendo sì che la reiterazione della condotta criminosa possa ritenersi preventivabile.
  Il secondo concerne gli elementi che l’onorevole Genovese ha portato all’attenzione della Giunta in merito alla Training Service. A tale proposito, la Giunta non è a conoscenza dell’esistenza di indagini in corso su questo aspetto, seppure in alcune pronunce giurisdizionali si evidenzia l’opportunità di approfondimenti in merito. È però fuori dubbio, avendolo confermato lo stesso Genovese, che tale società è a lui indirettamente riconducibile e che svolge tuttora attività formativa. Pur essendo vero che il bando relativo all’attività di formazione risale al 2011, è anche vero che le istanze, le note e i perfezionamenti di queste istanze avvengono dall’agosto al dicembre del 2013, in un periodo in cui erano state già disposte misure cautelari restrittive della libertà nei confronti di alcuni coindagati. Fermo restando che sarà compito della difesa del Genovese andare a verificarli e confutarli, osserva che risulta agli atti che dall’agosto del 2013 alla fine del medesimo anno la Training Service ha presentato istanza alla regione per ricevere finanziamenti per circa 243 mila euro e per 81 mila euro, come risulta dai documenti forniti dal Genovese per mano dell’amministratore unico della Training Service. Peraltro, reputa che l’obiezione avanzata dal Genovese in relazione alla circostanza che in seguito alle note vicende si sarebbe determinata una perdita di posti di lavoro non rileva ai fini della decisione della Giunta.
  Ritiene, infatti, che il compito della Giunta sia solo quello di valutare se le motivazioni che sorreggono la previsione in ordine al pericolo di reiterazione dei reati siano state formulate in modo ragionevole, sulla base di elementi documentali e fattuali convincenti.
  Del resto, se si utilizzasse una logica diversa, si dovrebbe paradossalmente concludere che tutte le ordinanze e tutti gli atti direttamente o indirettamente viziati da illegittimità, siano affetti da fumus persecutionis. A suo giudizio, ciò che viene richiesto per far emergere tale profilo non è solo l’illegittimità dell’atto, ammesso e non concesso che vi sia, ma anche un particolare e aggiuntivo elemento, perché altrimenti si verrebbe a determinare un effetto automatico e una duplicazione del giudizio che non corrisponde né al dettato costituzionale né alla suddivisione dei poteri presente nel nostro ordinamento.
  Svolge, infine, una considerazione in merito alla questione della revoca delle misura cautelari adottate nei confronti di alcuni imputati, osservando come le motivazioni poste a base di tali decisioni non siano in alcun modo riferibili alla posizione di Genovese. Infatti, il tribunale di Messina giustifica la revoca delle misure cautelari nei confronti della signora Chiara Schirò e del signor Elio Sauta in ragione dell’avvenuta apertura del dibattimento e dell’avvio dell’istruttoria, con l’esame dei testimoni e il conferimento degli incarichi peritali. Peraltro, a seguito dell’impugnazione da parte del pubblico ministero ha comunque riconosciuto che permane una esigenza in tal senso, seppure in misura attenuata.
  E di tutta evidenza che la posizione di Genovese, in quanto estraneo a quel processo, non sia in alcun modo assimilabile.
  In conclusione, ritiene che nella richiesta del giudice non sia rinvenibile un fumus persecutionis e, pertanto, non condivide le conclusione del relatore. Annuncia quindi il voto favorevole del suo gruppo in merito alla concessione dell’autorizzazione richiesta.

  Ignazio LA RUSSA, Presidente, non essendovi altri interventi, rinvia il seguito dell’esame, per giungere alla deliberazione finale previe dichiarazioni di voto per un massimo di dieci minuti per ciascun gruppo, alla seduta già convocata per domani, mercoledì 7 maggio 2014, alle ore 12,30.

  La seduta termina alle 13.45″.

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