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Nefropatia a depositi di IgA: un gruppo di ricercatori Unime partecipa a un’importante scoperta

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nefrologiaÈ stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Genetics, uno studio internazionale in cui è coinvolto anche il gruppo della Nefrologia dell’Università di Messina, diretta dal professor Michele Buemi.

Si tratta di uno studio genetico, condotto dal dottor Ali Gharavi della Divisione di Nefrologia della Columbia University di New York, e che ha visto la partecipazione di alcuni tra i principali centri che si occupano di Patologie Glomerulari (malattie renali immunologiche), principalmente dall’Europa e dall’Asia.

Il dottor Domenico Santoro, uno dei coautori di quest’articolo, spiega l’importanza di questo studio che aprirebbe nuove ipotesi sull’origine della forma più comune tra le patologie glomerulari, la nefropatia a depositi di IgA.

«La nefropatia ad IgA è una patologia immunologica, con una frequenza variabile che va dal 2-3% della popolazione negli Usa al 50% in Giappone, mentre in Europa oscilla tra il 20-40%. La malattia si sviluppa a seguito della formazione di alcuni autoanticorpi contro immunoglobuline della classe IgA, strutturalmente modificate. In circa un terzo dei casi la malattia tende a progredire verso l’insufficienza renale cronica. Rimane incerta la produzione delle IgA alterate che possono essere prodotte sia dal midollo che dalle mucose in risposta a antigeni infettivi o alimentari. Nel passato si riteneva che le tonsille fossero la sede principale di produzione di questi anticorpi».

«Questo studio ˗ prosegue Santoro ˗ ha scoperto 6 nuove associazioni genetiche. Inoltre è stata evidenziata un’associazione genetica con alcuni geni coinvolti in patologie intestinali di tipo infiammatorio (Ibd), il mantenimento della barriera epiteliale intestinale e la risposta a patogeni mucosali. La distribuzione geografica dei geni di questa malattia appare correlata con alcuni patogeni locali, suggerendo un possibile ruolo della mucosa intestinale nel processo patologico».

«Il passo successivo ˗ conclude ˗ sarà quello di poter definire dei trattamenti più specifici per questa patologia che rimane ancora ferma a protocolli terapeutici instaurati alla fine degli anni Novanta».

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