Di questi tempi, anche nel 1992 il paese era bloccato istituzionalmente. La poltrona del Quirinale, vacante, aspettava l’erede di Cossiga e i giochi di palazzo rallentavano le operazioni.
Alle sei del pomeriggio di sabato 23 maggio, l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti si trovava nel suo studio con Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia che aveva fortemente voluto Falcone a Roma, per affidargli la Superprocura. Mentre discutevano, squillò il telefono. Era Scotti, il ministro dell’Interno:«C’è stato un attentato contro Falcone. Sembra non sia grave». Martelli lasciò il Quirinale per volare a Palermo e salutare il suo più stretto collaboratore. Poi una serie di telefonate discordanti, fino all’ultima, di un ufficiale dei Carabinieri:« Il dottore Falcone è deceduto».
Cinquecento chili di tritolo, sistemati all’interno di un cunicolo sotto la Palermo-Trapani, avevano sventrato il tratto di autostrada nei pressi dello svincolo di Capaci. Insieme a Giovanni Falcone persero la vita la moglie, Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Giovanni Falcone era, con Paolo Borsellino, l’uomo di punta della lotta contro la mafia. Dopo l’omicidio del giudice Terranova (1979), aveva accettato l’offerta di Chinnici, che da tempo lo voleva all’Ufficio Istruzione. Aveva fiuto: comprese che per penetrare nelle logiche del potere mafioso era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruire il percorso del denaro sporco. Il famoso “Follow the Money”.
Falcone fu testimone degli anni più sanguinosi della Sicilia, quelli che videro cadere Giuliano, Costa, La Torre e Chinnici. Quest’ultimo aveva partorito l’idea di un pool – sviluppato poi da Caponnetto – composto da quattro magistrati che avrebbero dovuto coordinare le indagini sfruttando lo sguardo di insieme sul fenomeno mafioso teorizzato da Falcone.
Poi, la svolta con le preziose rivelazioni di Buscetta e il soggiorno all’Asinara in cui si cominciò a preparare l’istruttoria del maestoso maxiprocesso, successo epocale per tutto il pool antimafia. Caponnetto si sarebbe ritirato di lì a poco e Giovanni Falcone avrebbe dovuto essere il naturale prosecutore del suo lavoro. Ma si scelse Meli, il quale smantellò lo schema operativo del pool per ripristinare metodi ormai ampiamente superati. Si apriva la stagione dei veleni, delle accuse, del fallito attentato all’Addaura, della delegittimazione. Fu costretto a lasciare Palermo e si convinse ad accettare la proposta di Martelli. Seppe di avere in tasca i numeri per la Superprocura il giorno prima della sua morte. Era già consapevole del suo destino, ed era consapevole di essere sempre più isolato. In un’intervista concessa a Marcelle Padovani, autrice di “Cose di cosa nostra”, profetizzò: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».
Cosa ci lascia in eredità Falcone?
Sicuramente alcuni provvedimenti normativi per il contrasto al fenomeno mafioso, come le disposizioni circa la tutela dei collaboratori di giustizia e l’istituzione della direzione investigativa antimafia. Ma, soprattutto, al di là della vuota retorica, l’invito a unire le forze per combattere il potere mafioso, che si sconfigge con una battaglia culturale e istituzionale continua.
«Perché la mafia – come affermò – non è affatto invincibile; è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».
Angelo Rocca
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