Il Ponte sullo Stretto di Messina? Domenico Siracusano (Articolo Uno) entra a gamba tesa in un dibattito lungo decenni, definendo la questione: «un’arma di distrazione di massa». Alla città dello Stretto e al Sud in generale, aggiunge, «serve, sì, una scossa», soprattutto dopo l’accelerazione data alla crisi dal covid-19, ma più orientata verso un “Green new deal”, pratiche ambientaliste e un’attenzione alla scuola e al turismo.
Se molti presentano il Ponte sullo Stretto come la panacea di tutti i mali (o quasi) del Sud Italia, di diverso parere è il segretario provinciale di Articolo Uno Domenico Siracusano, che interviene nel dibattito riattivatosi nei giorni scorsi a seguito dell’ultima conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, e sposta l’attenzione su altro.
«Come ci ricordava nei giorni scorsi Emanuele Macaluso – scrive Siracusano –, la “prima volta” del Ponte fu nelle elezioni regionali del 1955 e, da allora, l’opera è divenuta un’enorme arma di distrazione di massa, la soluzione (impossibile) a tutti i problemi del Sud. Sotto l’ombra del ponte, in primo luogo la città di Messina ha vissuto, come sospesa, in attesa di un’opera miracolistica che ne avrebbe rilanciato le sorti. E così, col passare dei decenni, invece di costruire e ripensare il modello di sviluppo, la città si è inesorabilmente spenta».
Per Siracusano, la strada da percorrere per rilanciare Messina e il Sud va in un’altra direzione e non contempla «opere miracolistiche», ma interventi strategici integrati tra loro che non perdano di vista la tutela dell’ambiente e della salute.
«Si apra – propone Domenico Siracusano – un cantiere delle idee che, traendo un insegnamento dalla crisi che stiamo vivendo, immagini uno sviluppo che non prescinda dalla salute e dalla qualità dell’ambiente. I fondi in arrivo vengano utilizzati per la realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali, che possano far recuperare al Mezzogiorno il ritardo rispetto alla parte più avanzata del Paese. Si investa in scuola e formazione, tutela e protezione del territorio, agricoltura e turismo di qualità, ma anche sulla banda larga e nella riqualificazione della pubblica amministrazione. In questo modo, si potrà dare forza ai sistemi territoriali insieme a un ripensamento profondo di nuove politiche industriali fondate sulla riconversione ecologica».
«La sfida che ci lancia l’Europa – conclude – è quella del “Green New Deal”: a questa sfida devono rispondere le classi dirigenti meridionali. Troppo facile pensare a un’opera che risolva tutto, che tanto poi non si realizzerà. Più complesso avere una visione e, quindi, pensare ad una serie di interventi integrati e coordinati nei diversi settori che creino coesione e sviluppo. Non è più tempo di illusorie scorciatoie: si percorra con fatica la strada lunga della ricostruzione».
(366)