c'era una volta messina: stampa raffigurante il medico spurgatore che si occupava dei malati di peste

C’era una volta Messina: dalla peste al colera, le epidemie nella storia della città dello Stretto

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Lebbrosari, sanatori e ospedali

grande ospedale civico di messina
Grande ospedale civico di Messina

Esposta com’era al diffondersi delle epidemie, Messina fu una delle poche città ad avere già nel medioevo ben due lebbrosari, lontani dal centro abitato, in cui i malati venivano posti in isolamento: «Uno si trovava a Nord – spiega Franz Riccobono –, femminile, presso Sant’Agata, oggi demolito, che dipendeva dal Santissimo Salvatore dei Greci; l’altro a Sud, a Briga, costruito in età normanna sotto il Monastero di San Placido Calonerò, di cui rimasero i resti fino agli anni ’60, quando venne demolito per allargare la strada».

Successivamente, sempre fuori dalle mura della città, ma più vicino al centro abitato sorse il lebbrosario di Montesanto, a Villa Contino, dietro l’Ospedale Piemonte. Proprio qui, successivamente, verranno posti in isolamento i malati di un altro morbo che più volte nel corso dei secoli investì Messina, la peste del 1743. Sempre in questa occasione venne realizzato un altro ospedale, che accolse gli infetti del tempo, all’interno della Chiesa di Gesù e Maria, a Ritiro; luogo ideale proprio perché lontano dalla popolazione.

«In città – racconta Riccobono – c’erano diversi ospedali, poi riuniti nel ‘500 nel Grande Ospedale di Santa Maria della Pietà, rimasto attivo fino al 1908, che occupava l’area dove oggi sorge il Tribunale, ma era più grande dell’attuale Palazzo di Giustizia. Aveva addirittura un Orto Botanico dove coltivare le erbe medicinali. Ora i vasi di farmacia e il banco sono esposti al Museo Regionale (MuMe), mentre altri elementi, come il grande crocifisso, sono finiti all’Ospedale Piemonte».

In occasione dell’epidemia di colera del 1887, inoltre, nacque un’organizzazione che precorre l’impostazione dell’odierna Croce Rossa, la “Croce d’Oro”: «Messina – prosegue Franz Riccobono si mostra all’avanguardia creando un corpo sanitario per la gestione dell’emergenza. In quell’occasione, i morti furono tanti che crearono a Maregrosso il cimitero dei colerosi, la cui cappella rimase in piedi fino alla II Guerra Mondiale. Sui resti di questo cimitero venne poi costruito il Lido Sud, uno stabilimento balneare frequentato dagli abitanti della zona. In particolare, il bar in cui si ballava era situato proprio dove prima c’era la cappella del cimitero».

Un’altra zona dedicata alla sepoltura degli infetti era la zona Falcata: «L’area – spiega Riccobono – non era abitabile, quindi la usavano come “cimitero di isolamento”. Normalmente i morti venivano seppelliti dentro le chiese o in prossimità del luogo sacro, a seconda delle possibilità economiche della famiglia. Per le persone decedute a causa di una malattia altamente contagiosa come la peste o il colera, vennero destinate alla sepoltura zone lontane dal centro abitato. Una di queste si trovava all’interno della zona Falcata, a nord della Cittadella». L’area venne poi riconvertita in cimitero per i non cattolici, solitamente stranieri, cristiani ma di fede protestante.

Per quel che riguarda tempi più moderni, diverse strutture nacquero per far fronte a una diversa malattia, la tubercolosi, che colpiva soprattutto i bambini. «Dopo il terremoto – spiega il professor Franz Riccobono – la Croce Rossa americana costruì a Mortelle un sanatorio, uno stabilimento elioterapico dove curavano i bambini malati di tubercolosi. C’è ancora, l’hanno restaurato ma è inutilizzato. Sono tanti padiglioni sulla spiaggia creati con criteri di areazione adeguati alla terapia».

«Un’altra struttura importante – conclude Franz Riccobono –, che purtroppo è andata persa, abbandonata, è il sanatorio di Camp’Italia, tra Curcuraci e l’Annunziata, fatto costruire dal professor Puglisi Allegra negli anni ’30. Infine, si ricorda la Colonia Montana Principe di Piemonte, situata nella Pineta di Camaro e sempre dedicata alla cura dei bambini affetti da malattie polmonari».

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