Luigi Scarcella, messinese d’origine, vive a New York ormai da 13 anni. Qui ha creato “Half Sumo Collective”, linea d’abbigliamento per arti marziali. «Mi colpisce la situazione frustrante che c’è a Messina, la paura di sognare lavorativamente parlando, sono pochissime le persone che parlano del proprio sogno nel cassetto, di un’attività, di un progetto, come se fosse una cosa di cui vergognarsi».
Tu Vuò Fa’ L’Americano
Luigi Scarcella sembra uno di quei messinesi in pace con se stesso. Sarà che è riuscito a realizzare il suo sogno, nonostante le difficoltà di un nuovo Paese. «New York è stata una decisione presa senza tanta strategia da un ragazzino di 22 anni. Era una mattina di luglio – del 2007 – quando ho ricevuto un’offerta per uno stage dalla TBWA di Roma (una delle agenzie pubblicitarie più importanti del mondo, ndr).
Rigiravo tra le mani il bigliettino da visita che mi avevano dato (ancora lo conservo) e in quel momento ho deciso che sarei partito, con molta leggerezza. Da un lato la prospettiva di un’estate ad arrostire allo stage non retribuito ma che sarebbe potuto essere un investimento importante per la mia carriera, dall’altro la possibilità di volare a New York senza un’idea precisa di cosa avrei trovato, senza conoscere la lingua e senza un quattrino».
Walk on the Wild Side
Una volta a New York, per Luigi non è stato così immediato ambientarsi. Lingua e cultura diversa sono un ostacolo da non sottovalutare. «Integrarsi a New York è stata una grande conquista, molti mi dicevano che sarebbe stato facile imparare l’inglese ma per me è stato un percorso lungo. Non parlavo davvero una parola all’inizio ed è terribile non potersi esprimere. Sentirmi a casa in America è stato un processo lungo fatto di piccole conquiste quotidiane durato molti anni.
Oltre la lingua anche la cultura è profondamente diversa. I primi anni subivo molto gli aspetti che ritenevo negativi, adesso invece mi rendo conto dell’immensa fortuna che ho avuto nel poter vivere queste due culture: quella italiana e quella americana».
No Sleep Till Brooklyn
Luigi Scarcella ha realizzato il suo sogno americano e lo ha fatto con un progetto molto accattivante. Si chiama “Half Sumo Collective” ed è una linea di abbigliamento sportivo per arti marziali. «Principalmente ci occupiamo di MMA e Brazilian jiu Jitsu, io curo il design dei prodotti e la comunicazione, abbiamo anche collaborato con la UFC per il loro primo evento al Madison Square Garden.
Lo stile di design che abbiamo sviluppato cerca di trovare un punto di incontro tra la precisione e l’armonia dell’Irezumi e un linguaggio visivo più moderno fatto di pennarelli e street art. Come se un artista di woodblock print del periodo Edo giapponese si ritrovasse di colpo trasportato nella Brooklyn del 2020.
Oltre all’abbigliamento sempre a New York abbiamo partecipato ad alcune mostre, l’ultima Beyond The Fighter organizzata al The Gentle Arts Club lo scorso autunno».
Le arti marziali sono la via d’uscita per Luigi dalla New York eccessiva e travolgente. Non è un caso che a novembre del 2019, insieme a Salvatore Triscari e Joseph Sturiale – ha rappresentato l’Italia ai Mondiali di Karate di Tokyo.
«Mi sono appassionato al Kyokushinkai che avevo già 20 anni, devo molto a questa disciplina, quando sei giovane in una città come New York è facile perdersi tra feste incredibili e vita di eccessi, la disciplina marziale è stata una bussola importante per me, l’ho coltivata lentamente e con una passione sempre più intensa, ma non avrei mai sognato di ritrovarmi a Tokyo al campionato del mondo.
È un’esperienza difficile da descrivere a parole, è stato un percorso fatto di tanti piccoli passi in avanti, credo che il vero significato delle arti marziali sia il costante mettersi alla prova, chiedersi: ma posso migliorare ancora? L’unico vero avversario da battere è il te stesso di ieri. Ho avuto la fortuna di vincere il campionato USA l’anno delle qualificazioni per il mondiale e sono stato selezionato dalla Federazione Nord Americana. Un’esperienza che non dimenticherò mai».
New York e lo Stretto
Si percepisce che per Luigi Scarcella è stato davvero complicato creare un legame così solido con New York, nonostante non fosse la sua città. «Ormai Brooklyn è casa mia, come lo è Messina. Ho il mio mondo, le mie amicizie, i miei ricordi, ma a parte queste cose molto personali se penso a un motivo per cui mi piace vivere a New York è per la sua incredibile contagiosa energia.
L’energia che ti danno le persone, la stragrande maggioranza sono giovani arrivati con un sogno in una valigia, c’è chi vuole fare il grafico, chi vuole diventare regista, chi vuole aprire una spaghetteria, chi ha un’invenzione da brevettare, vieni investito come un’onda e quando riemergi ti viene naturale chiederti, ..e il mio sogno qual è? A parte tutto New York ha un costo della vita molto alto. Si lavora tantissimo e se non ti rimbocchi le maniche non puoi sopravvivere. I primi anni sono stati una sfida, non è una città semplice».
No, questa storia non finisce con Luigi Scarcella che torna a Messina per continuare a lavorare ai suoi progetti. Questa città è troppo piccola per chi sogna in grande.
«Amo molto Messina ma non credo tornerei, almeno non adesso. Quando emigri impari a convivere con la nostalgia, diventa parte di te, del tuo carattere e della storia della tua vita. Da lontano percepisco la città in un modo molto romantico, devo ammettere pero’ che le mie esperienze lavorative sono negli Stati Uniti (dove ci sono altri problemi) quindi raccolgo solo le testimonianze della situazione frustrante che c’è a Messina, mi colpisce la paura di sognare lavorativamente parlando, sono pochissime le persone che parlano del proprio sogno nel cassetto, di un’attività, di un progetto, come se fosse una cosa di cui vergognarsi, viviamo ancora condizionati dalla cultura delle generazioni prima della nostra, la mitologia del posto fisso, purtroppo dobbiamo renderci conto che per la nostra generazione è tutto più difficile, non abbiamo il posto fisso, e non avremo una pensione (lo stesso in America) tantissimi miei coetanei si ritrovano in situazioni complicate, a fare lavori che li rendono infelici, l’infelicità è contagiosa, si vede che Messina è una città che non è amata da chi ci vive, come una donna bellissima trasandata, maltrattata e umiliata».
Strangers in the night
A New York, si sa, succedono cose molto strane e chi siamo noi per non farci raccontare la cosa più strana successa a Luigi Scarcella?
«Era notte fonda, forse le 2. Con un vecchio amico stavamo tornando a casa. In quegli anni vivevo a Williamsburg che confina con il quartiere ebraico, la comunità Orthodox e Hacidism più grande del mondo, consiglio sempre a tutti di andare a visitarlo, è molto interessante: sembra di fare un salto nel tempo, come se fossi teletrasportato nel 1800. In un attimo si passa dai chiassosi bar hipster di Williamsburg al silenzio delle vie del ghetto ebraico, la gente in abiti antichi e le sue vie dalle case austere ed essenziali.
Ma torniamo a noi, mentre camminiamo veniamo educatamente avvicinati da due signori ortodossi, vestito nero, grossi cappelli Shtreimel, barba e inconfondibili Payot (una sorta di lunghi boccoli al posto delle basette). Ci chiedono: “are you jewish?” ( siete ebrei?). In quel momento ci rendiamo conto anche noi di portare delle barbe piuttosto lunghe, rispondiamo di no e loro si guardano attorno con aria preoccupata: non c’è nessun altro per strada a quell’ora e con quel freddo gelido. Il più anziano sospira e ci chiede con aria rassegnata se possiamo aiutarli a fare una “cosa” semplice ma di vitale importanza. Alle 2 di notte, a 2 sconosciuti.
“Sì ok, ma cosa?”. Di tutta risposta tanti sorrisi di cortesia e un invito a seguirli. Entriamo tra mille convenevoli in un appartamento pieno di oggetti antichi, illuminato solo da candele e candelabri, al tavolo della cucina 3 donne con le teste fasciate dalle tradizionali bandane Nichel in silenzio assoluto e con lo sguardo basso. Il più giovane dei due uomini ci invita a guardare dietro il frigorifero: la spina della corrente era staccata, ci chiede se possiamo gentilmente riattaccarla. Resto un attimo perplesso convinto che non sarei mai uscito vivo di là, attacco la spina rassegnato al mio destino, con un ronzio il frigo riparte e i due uomini ci riempiono di ringraziamenti e sorrisi… senza sfiorarci mai neanche un secondo (non una stretta di mano, una pacca sulle spalle, niente) ci accompagnano alla porta e ci salutano.
Durante lo Shabbat, la Halakhah proibisce al popolo ebraico lo svolgimento di qualsiasi forma di “melachah” (lavoro) oltre arare, seminare, cucinare e anche azionare macchinari elettrici: probabilmente un bambino aveva accidentalmente staccato la presa del frigorifero, pur di non toccare la presa per osservanza dello Shabbat (con la certezza che tutti gli alimenti sarebbero andati a male) hanno preferito uscire di casa alle 2 di notte alla disperata ricerca di qualche “pagano” come noi disposto ad aiutarli».
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