Bisogna essere tifosi di calcio per toccare il fondo. E noi a Messina sappiamo bene cosa sia il precipizio e il fallimento. Siamo passati dalla A alla D senza neanche rendercene conto e tra l’indifferenza di tutti. Ma se sono a Messina di domenica sapete dove trovarmi: allo stadio! A urlare come quando eravamo in serie A o come quando c’erano Scoglio o Zeman (il padre), Schillaci, Napoli, Catalano, Caccia, Zampagna, Di Napoli, Coppola e persino Bertagna e Lo Bosco! Perché il calcio ha il potere di illuderci, ma nell’illusione nasconde una possibilità, anche se lontana e improbabile: la sfericità di un pallone che può cambiare direzione a quella giornata, a quel campionato e alla vita stessa di ogni tifoso.
Ma questo è solo calcio. Messina conosce bene le sue possibilità e, quando non le ignora, le mostra come nel mito della Fata Morgana: belle, splendenti, riflesse e rapide a scomparire, nello spazio e nel tempo. Però è luminosa e popolata da una ricca percentuale di persone aperte e colte, desiderose di vivere la propria città e la sua cultura. Ma rimane vittima di quella dispettosa fatina che trasforma in nulla ogni splendore.
Ora io devo scrivere un “biglietto natalizio”. Devo essere positivo, si dice così. E così mi hanno chiesto. Anche se mi hanno chiesto di parlare di teatro e quindi dell’unico teatro della nostra città, o almeno quello su cui si concentrano, a mio parere erroneamente, tutti i contributi pubblici, cioè regionali e comunali. Allora, se devo pensare positivo, devo sperare che il Teatro di Messina esca, il più rapidamente possibile, dal tunnel in cui si trova: non produce, non fa formazione, non crea indotto, non sostiene l’attività sul territorio, non interagisce con il pubblico, non ha un vero e proprio organico tecnico e organizzativo, non riesce ad accedere alle contribuzioni ministeriali, non partecipa ai bandi nazionali ed europei ed è crollato anche a livello regionale dove risulta all’ultimo posto del furs. Ne deriva una stagione di ospitalità, come si addice a un qualsivoglia teatro comunale, di spettacoli patinati e costosi, in netto contrasto con le finalità dell’Ente e con il corposo organico di cui è dotato.
Porterà Babbo Natale un cambiamento? Torneranno gli attori, i registi, i tecnici, i musicisti dell’orchestra a lavorare con continuità? Il teatro a produrre spettacoli e a collaborare con le compagnie del territorio? Torneranno gli spettacoli internazionali realizzati in collaborazione con la comunità europea? I grandi laboratori di formazione? Le attività estive sparse nella città? Tornerà il nostro teatro ad avere un vero progetto teatrale e musicale?
Certo che sì. Questo è l’augurio. Questo è pensare positivo!
Ci sono delle condizioni, però. Mi sembra ovvio. Babbo Natale non da niente per niente. Ci vuole intelligenza profonda e teatrale, degna di un luogo sacro. “Il teatro” diceva un grande scrittore francese “è, per sua stessa natura, uno dei simboli più perfetti della manifestazione universale”. E al di là della morale, il teatro non è un posto dove si possa gestire potere perché il potere in teatro ce l’ha soltanto chi fa teatro e chi lo fa bene. Il teatro deve rispondere ad una gerarchia artistica, così vale anche per la musica, in cui l’autorevolezza è resa indiscutibile dai risultati nel loro complesso. Risultati artistici e culturali, prima di tutto, sociali ed economici, per riflesso, ma mai biecamente politici o sconsideratamente provinciali.
E poi ci vogliono le persone. I professionisti del settore. Ci vogliono direttori artistici di comprovata professionalità e di chiara fama. Serve un riassetto anche amministrativo dell’intera struttura. Tutto il lavoro e tutti i lavoratori devono essere concentrati sul teatro, progettando un’attività costante ed estesa per tutto il corso dell’anno. Bisogna avere rispetto per la tradizione teatrale, per gli attori, per i musicisti, per i tecnici e soprattutto per il pubblico.
E non è difficile far vivere il teatro come se fosse un teatro. Per fortuna ci siamo riusciti in molti, negli anni precedenti. Oltre chi scrive, attori come Mariano Rigillo, Sebastiano Lo Monaco, Maurizio Marchetti, registi come Walter Manfrè e Massimo Piparo, ora direttore del Teatro Sistina e, soprattutto, devo ricordare l’infaticabile lavoro di Lorenzo Genitori, vero e proprio “genitore” dell’Orchestra del Teatro di Messina, di Giovanni Renzo, e le più illustri, ma certamente meno interessanti, parentesi di Giocchino Lanza Tomasi e Michelangelo Zurletti.
Ora, proprio mentre stavo stilando quest’elenco, mi è venuta in mente una cosa: i nomi che si ricordano sono quelli dei direttori artistici, nel bene e nel male, ma soprattutto nel bene. Di tutti questi anni sono rimasti i nomi dei direttori artistici, non quelli dei presidenti, dei consiglieri d’amministrazione, dei sovrintendenti, dei commissari, dei burocrati, dei sindacalisti, degli uffici stampa, dei pubblicitari e di tutti quelli che, indiscutibilmente, più o meno bene, hanno collaborato o creduto di collaborare a questa storia, né di quelli che hanno sfacciatamente lavorato contro il teatro, per ignoranza o per strampalati interessi di parte. E si ricorda anche il nome di Domenico Maggiotti, grande direttore tecnico e “maestro”. Così l’ho chiamato, dandogli del lei, fino a l’ultimo giorno in cui ho avuto il privilegio di vedere un mio spettacolo illuminato dal suo genio e la fortuna di stargli accanto. Maggiotti è stato, a mio parere, il più grande uomo di teatro che abbia mai lavorato tra quelle mura.
Logicamente anche i ruoli amministrativi e politici dovrebbero essere ricoperti da persone del settore, come avviene nei grandi teatri italiani e soprattutto in quelli europei. Ma questo è veramente un sogno perché il potere politico è sempre stato affascinato dal mondo dello spettacolo. Nerone suonava la lira, Clinton il sax, Berlusconi è un cantante fantastico, dice chi lo ha ascoltato. Ma il Teatro è una disciplina. Non è semplice spettacolo, esibizione, ricchi premi e cotillons, come diceva Arbore. Non è un lavoro come un altro, non è un luogo come un altro. E’ uno spazio vuoto, come quello di un tempio, mette alla prova la nostra umiltà e non consente alla vanità di insinuarsi al suo cospetto. E’ severo con chi non lo rispetta. Sbugiarda i cattivi e li dimentica. Chiunque entri in un teatro dovrebbe aver presente questo, con lo stesso riguardo che anche un ateo deve avere dentro una chiesa. Non ci sarà mai una ragione squisitamente “politica” per gestire un teatro. E’ il teatro che comanda, ti porta sulle sue tavole anche se non te ne accorgi. Ti mette a nudo. Il teatro non è per tutti, richiede talento, capacità, preparazione, studio, cultura, coraggio, conoscenza, prontezza, devozione. Tutte cose che non si trovano tra le voci di bilancio della regione siciliana, tutte cose che non si ottengono con una vertenza sindacale, che non si improvvisano e che non si possono sostituire.
Basta questo. E andrà tutto bene.
Ninni Bruschetta
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