Pinter va letto. Questa è la prima cosa che ci viene da dire (al pubblico non ai teatranti) alla fine di “Temporanea dimora” per la regia di Stefania Pecora, in scena ai Magazzini del Sale lo scorso weekend. L’atto unico è ispirato, infatti, a “Una specie di Alaska” di Harlod Pinter e racconta di Deborah che dopo 29 anni si sveglia da un coma profondo. In realtà Deborah durante questo lungo tempo – per citare il Dottor Hornby che l’ha presa in cura – prova a camminare, a sorridere, prova a tornare alla vita e alla sua famiglia. Parla ma nessuno riesce a sentirla.
La costruzione dell’azione pensata da Stefania Pecora, al debutto come regista, è perfetta. Di gusto, elegante, sinuosa, a tempo. I tre personaggi entrano in scena e ricostruiscono solo con la forza del corpo quello che è successo alla protagonista, 29 anni prima. Chiara Trimarchi è davvero una brava attrice, si veste bene nei panni di Deborah appena sveglia, tiene lei tutta la scena. Il suo quasi monologo, intervallato solo da alcune domande del medico – interpretato da Orazio Berenato – viene poi interrotto dalla sorella Pauline, interpretata da Stefania Pecora. Qui tra salti nel tempo, si ricostruisce la vicenda della ragazza.
La regia di Stefania Pecora
Ci sono tre cose che abbiamo preferito di questo spettacolo. Intanto il debutto alla regia di Stefania Pecora, che dopo tanti anni da attrice della Compagnia dei Naviganti passa dall’altra parte, dando a tutta la scena la sua lettura di come dovrebbero interagire gli attori e come dovrebbe essere sviluppata la trama. Poi abbiamo apprezzato due scene in modo particolare. La prima, come abbiamo già detto, si riferisce al modo in cui la regista decide di far entrare gli attori in azione e come viene ripercorso il trauma affrontato da Deborah e dalla famiglia. Il secondo è il momento in cui le sorelle si incontrano (forse un flashback). Pauline veste Deborah con estrema tenerezza e le insegna a ballare. Bellissimo.
Quello che non abbiamo preferito
I tre interpreti hanno agito un po’ con il freno a mano tirato. Da spettatori volevamo essere invasi dalla sensazione di straniamento di una persona che si risveglia dal coma e cerca di riprendere in mano la sua esistenza: tra condizione quasi onirica, vita vera e anche un po’ di rabbia per il tempo trascorso e che non tornerà. Altra nota, il finale: interessante l’intenzione di lasciare lo spettatore con il sospetto che Deborah sia tornata a dormire profondamente ma avremmo voluto fosse più decisa.
Note a margine
Molto bello il disegno di luci curato da Elvira Ghirlanda. Così come i costumi, l’arredo e la scelta della musica.
Perché Pinter va letto
Siamo convinti che il pubblico non debba necessariamente conoscere un autore prima di andare a teatro. Ma questo discorso non vale per Harold Pinter, premio Nobel per la letteratura nel 2005. Pinter, infatti, ha un modo e uno stile serrato, talvolta no sense, capace di farvi entrare in una dimensione reale ma estranea alla realtà. Leggere i suoi testi vi permetterà di capirne meglio la poetica e anche il motivo per cui vengono messe in scena le sue drammaturgie in un determinato modo.
Ci era già capitato, in altre occasioni, di vedere spettacoli tratti da Pinter e anche lì abbiamo sentito la mancanza di qualche elemento, dovuto probabilmente al fatto di non aver approfondito abbastanza. Nel caso specifico, “Una Specie di Alaska” è ispirato a “Risvegli” di Oliver Sacks che racconta le esperienze dei suoi pazienti affetti dell’encephalitis letargica. Da qui è stato tratto anche il film omonimo con Robert De Niro e Robin Williams.
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