Scegliamo una giornata di sole ottobrina per incontrare Thilina Pietro Feminò, che di mestiere fa l’artista. Abbiamo conosciuto Thilina poco dopo il lockdown del 2020 e c’eravamo ripromessi di scambiare quattro chiacchiere con lui.
Thilina lavora in modo particolare con le maschere tipiche della Commedia dell’arte e di recente le ha fatte conoscere al pubblico messinese durante la scheggia d’arte organizzata dal Connettivo, collettivo di creativi di Messina.
«Ho studiato filosofia a Urbino – racconta Thilina Pietro Feminò – e dal primo anno ho iniziato a fare teatro ma per motivi molto sociali, volevo conoscere nuove persone. Poi al secondo anno ho conosciuto Carlo Boso, ma non lo avevo mai sentito nominare».
Dalla Sicilia alla Francia, il teatro di Thilina Pietro Feminò
Thilina inizia il percorso teatrale per una pura esigenza sociale ed è proprio durante il laboratorio che conosce Carlo Boso. Carlo Boso è un attore, drammaturgo e regista vicentino, tra i più grandi conoscitori della Commedia dell’arte.
E proprio nel 2004, Carlo Boso insieme a Danuta Zarazik, dà vita all’AIDAS – Académie Internationale Des Arts du Spectacle, a Versailles. È qui che Thilina capisce di voler fare l’attore. «Carlo Boso era un uomo affascinantissimo – racconta Thilina – soprattutto era un uomo che sapeva fare tutto. E quando ho conosciuto i suoi allievi, tramite un partenariato con l’università sono rimasto stupito. E mi sono detto, perché io non posso farlo?».
Così Thilina accelera i tempi per concludere il percorso di studi universitari e iniziare quelli teatrali in Francia. «Con il francese partivo da zero ma era teatro quindi era molto pratico e c’era tanta voglia di imparare. Nel giro di un anno ci sono riuscito».
Il linguaggio della Commedia dell’arte
«La scuola di Carlo Boso – continua Thilina – è una scuola classica, per cui fai tutte le discipline ma effettivamente c’era una sezione dedicata alla Commedia dell’arte molto forte. È una palestra. La Commedia dell’arte racconta storie e per raccontarle devi imparare a ballare, cantare, suonare.
C’è un apparato tecnico che ti fa allenare, e questa cosa mi affascinava molto. E poi funzionava sulle persone. Arrivavi in piazza, montavi il palco, ti sistemavi e poi iniziavi la scena, e facevi festa con il pubblico. Mi piaceva molto questa atmosfera. La gente si emozionava».
Le maschere di Thilina Pietro Feminò
Elemento indispensabile per chi fa Commedia dell’Arte è la maschera. «Uno dei miei maestri è Stefano Perocco di Meduna, allievo a sua volta di Sartori (una famiglia di mascherai, Amleto il padre e Donato il figlio. Quest’ultimo nel 1979 con Paola Piizzi e Paolo Trombetta fonda il Centro Maschere e Strutture Gestuali, ndr.). La bellezza della Commedia dell’arte è che rappresenti tutta la società, dal buono al cattivo. Ogni maschera ha una storia che si intreccia».
Thilina ha 20 maschere. «Sei, sette sono quelle tradizionali, più altre creazioni nuove, perché ovviamente la Commedia dell’arte mi ha aperto a nuove tradizioni di maschere, quelle orientali, quella indiana, quella balinese. La Commedia è uno stile, ma ogni parte del mondo ha le sue maschere». A questo punto la domanda sorge spontanea, qual è la tua maschera preferita? «Arlecchino, perché è il bambino, la purezza, l’innocenza. È la fantasia. Rappresenta la bellezza della gioia. Mentre di quelle meno tradizionali, il fauno. Perché mi piace lavorare molto sulle maschere antropomorfe, che parlano dell’animalità.
Per indossare la maschera devi arrivare a un certo tipo di temperatura. Se non arrivi a quella temperatura la maschera non vive ed è bella questa cosa perché entri in quella zona, in cui sta per succedere qualcosa. Abbandoni l’idea di te stesso, della scena quando indossi la maschera». Con la maschera, Thilina ha anche condotto un laboratorio, in collaborazione con Davide Liotta dell’associazione ARB, destinato ai mediatori giudiziari, che avrebbero dovuto affrontare da una parte le vittime e dall’altra gli imputati. «Mi piacerebbe rifarlo, le persone velocemente ritrovano delle dinamiche ancestrali».
Il mestiere dell’attore
Thilina ha trascorso quindi la gran parte della sua vita a Parigi, almeno fino all’anno scorso. «Mi ero accorto che a Parigi si poteva lavorare, che lì c’è uno statuto dell’artista, quindi se tu lavori un tot di ore l’anno in quanto privato, lo Stato ti riconosce uno stipendio, dei diritti. Quindi questa passione poteva diventare un mestiere. Vai dal compleanno al battesimo, fino al Teatro di Parigi. C’era una palette di possibilità e ho preso tutti i lavori che c’erano».
In Francia, dal 1936, esiste L’intermittence, un regime sociale speciale dedicato agli artisti (teatro, cinema, tv). Quindi con tre mesi di lavoro (507 ore circa), un artista in Francia può accedere ai dodici mesi di sussidio di disoccupazione, adeguato al salario che ha percepito. Questa è una proposta concreta per tutelare e valorizzare il mestiere degli artisti.
Il Collettivo dei creativi di Messina
Thilina, lo scorso 16 ottobre, ha partecipato alla scheggia d’arte organizzata dal Connettivo – collettivo di creativi di Messina e confessa che senza il collettivo non sarebbe mai andato in piazza. «Queste realtà sono importanti. In Francia, il teatro è una disciplina della scuola. È considerato fondamentale. Non bisogna chiedersi se funziona oppure no, se già lo fai per te qualcosa succede. La gioia è contagiosa.
Se ogni mese succede qualcosa a Messina, qualcosa si smuove per forza. Sperando che gli amministratori si accorgano di questa cosa. Se potessi avere un confronto con il Comune, vorrei uno spazio. In cui le persone possono creare e offrire».
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