“Il muro bianco è inutile. Coloralo”. Questa frase, che campeggia su un muro della nostra “passeggiata a mare”, mi ha fatto pensare a tante cose, persino all’anacronismo dello “scrivere sui muri”. Una volta, scrivere sui muri era segno di protesta, ribellione, di richiesta di attenzione, ostentazione di sentimenti. Adesso, in una società che si evolve in modo bizzarro e tende al primato della tecnologia, chi sceglie il muro per comunicare risulta quasi demodé, addirittura nostalgico e trasgressivo.
Eppure, gironzolando per la città ci si imbatte in parecchie dediche, vere e proprie lettere d’amore, affidate ai pavimenti e alle pareti bianche di tristi strade, con la richiesta di essere lette. Dalla persona cui è rivolto l’appello murale, dalla gente comune, dai passanti, da chi va a passeggio o a correre. E spesso gli si strappa un sorriso, o una lacrima, guardando il tratto a volte preciso e netto, altre timoroso e timido, di una bomboletta spray, di un pennello intriso di vernice che parla. Sogna. Esprime.
Il fenomeno per qualche tempo si era arginato, complici i sempre più diretti e virulenti social network che recapitano messaggi e pensieri ovunque anche se non a destinazione, ma va bene lo stesso. E’ il prezzo da pagare per un eccesso di comunicazione. E quasi ad essere gelosi dei propri sentimenti, adesso si preferisce non più il freddo Facebook, o il limitante Twitter, ma una bella tela, tutta cittadina, su cui incidere i propri pensieri.
Non so perché, ma mi piace immaginare che questi artisti improvvisati di street art e poeti dell’ultima ora, non siano ragazzini, come invece lo erano prima. Gli adolescenti con un disperato bisogno d’amore che pur di farsi notare andavano ad imbrattare i muri della città. Non ci sono infatti scritte da sms con” xché”, “ke fai mi ami”, “c6”, “dmn”, appunto con la riduzione drastica delle ridondanze linguistiche, segno che tanto piccoli i nostri improvvisati poeti non sono.
In ogni caso, va detto che non è una cosa politicamente corretta sporcare la nostra linda e pinta città, ma come non essere orgogliosi di avere scritto almeno una volta nella vita qualcosa che tutti possono leggere? Io l’ho fatto, era il 1988 due nomi e un “persempre” (tutto attaccato questa era il massimo della licenza poetica che potevamo permetterci ndr), sul cartello di divieto di sosta all’entrata di Boccetta, davanti l’Archimede. Rigorosamente con l’UniPosca. Bei tempi…
Emanuela De Domenico
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