professore centorrino intervistato sulle conseguenze della post reclusione coronavirus

Dopo il coronavirus non saremo più come prima. L’intervista al Prof. Marco Centorrino

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Sono passate due settimane o giù di lì dall’inizio della quarantena, utile per diminuire il contagio dal coronavirus. La nostra normalità è stata spazzata via in un batter d’occhio e adesso siamo chiamati a reinventare le nostre abitudini, a modificare il modo di comunicare dentro e fuori le nostre abitazioni. I social diventano vero luogo di incontro, confronto e conforto.

Ma che impatto sta avendo il coronavirus sulle nostre vite e che cambiamenti ci saranno sulle relazioni interpersonali alla fine della reclusione? Lo abbiamo chiesto a Marco Centorrino, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Messina e, attualmente, responsabile della comunicazione dell’Unità di Crisi del Policlinico. «Mi spaventa l’individualismo che rischia di fare prevalere gli interessi di ciascuno di noi sulle regole e le raccomandazioni da osservare in questi giorni: ciò potrebbe trasformarci in una potenziale fonte di contagio». L’intervista completa.

Professore “The Big Brother” di George Orwell è diventato realtà. Adesso siamo tutti reclusi con “qualcuno” che ci sta osservando?

«Sinceramente vedrei il problema in un’altra ottica. Più che sulla privacy, vorrei focalizzare l’attenzione sull’indispensabile apporto che le tecnologie dell’informazione ci stanno fornendo in questo momento: dalla teledidattica alla possibilità di mantenere le relazioni sociali; dal telelavoro alla possibilità di diffondere informazioni utili (come provvedimenti istituzionali e consigli). Certo, maggiore è l’uso degli strumenti digitali, maggiori saranno i dati che le big company avranno a disposizione per profilarci, ma – e questa è una constatazione, non una valutazione – è un prezzo da pagare per accedere a determinati servizi offerti in forma (apparentemente) gratuita».

A livello sociologico che effetti sta avendo e avrà questa reclusione?

«È ovviamente presto per dirlo, visto che andranno misurati sul lungo periodo. Gli spunti, però, non mancheranno. Penso, ad esempio, agli effetti di questi rapporti “forzati” su determinate relazioni (quelle di coppia, quelle tra genitori e figli, ecc.). Più in generale, però, sin da ora è possibile anticipare un dato. Poiché il nostro modo di vivere il quotidiano passa inevitabilmente dalle esperienze pregresse, proprio questa esperienza cambierà l’approccio che avremo al mondo che ci circonda. Difficile dire se si tratterà di un mutamento radicale o “soft”. Molto dipenderà dai tempi necessari per uscire dall’incubo».

A livello comunicativo, crede che i network italiani stiano facendo un buon lavoro?

«Stanno facendo ciò che inevitabilmente debbono fare. È inevitabile che concentrino la maggior parte dell’attività sulla dimensione informativa. Anche la frenesia nella ricerca di esperti, veri o presunti, è da mettere nel conto.
Devo dire che, in termini generali, riscontro una grande maturità da parte dei giornalisti italiani. Hanno compreso come la loro responsabilità in questo momento, più che mai, sia altissima. Il cercare di mettere in rilievo sempre aspetti positivi, più che negativi può essere di grande aiuto. Apprezzo un po’ meno qualche anchorman che si improvvisa giornalista e, alla fine, rischia di diffondere panico solo per mantenere l’unico copione che conosce: quello del sensazionalismo».

Quale dovrebbe essere la “dieta mediatica” in questo momento? Voglio dire, bombardarsi di notizie sul coronavirus è la cosa giusta da fare?

«Come tutte le diete, il segreto è che sia bilanciata, ma – anche in base a ciò che ho detto precedentemente – non si può evitare che le notizie sul coronavirus rappresentino il “piatto forte”. Piuttosto mi sarei aspettato qualche atto di generosità in più da parte dei servizi di pay-tv. Ad esempio, la discussione sulla trasmissione in chiaro delle partite di calcio a porte chiuse – prima che il campionato fosse fermato definitivamente – è stata sinceramente surreale».

Perché le fake news non si arrestano nonostante l’emergenza? Come possiamo contrastarle?

«Perché ormai fanno parte della nostra cultura. Il concetto di post-verità, strettamente connesso alle fake news, è un elemento entrato purtroppo a pieno nella nostra mentalità. Abbiamo superato la tradizionale dicotomia tra vero e falso e stiamo sposando sempre più una visione relativista. Penso, però, che la “reclusione forzata” e il conseguente aumento nei consumi di mezzi tradizionali (televisione, radio, giornali) stia aiutando a comprendere la valenza delle “fonti istituzionali”. È da questo che passa il contrasto alle fake news, dal recupero dell’autorevolezza di determinati media».

Se prima era web 2.0, poi 2.2, adesso che periodo sta vivendo il world wide web?

«È sempre e comunque nella fase nella quale si esalta la dimensione partecipativa, il cui avvento motivò l’adozione dell’etichetta 2.0. È indubbio che tale partecipazione si manifesti a livelli sempre più elevati e, in tal senso, si può parlare di un web 3.0 o addirittura 4.0. Ma la sostanza, al di là delle etichette, consiste nel fatto che gli utenti sono sempre più protagonisti assoluti della rete».

Secondo lei, gli “utenti” hanno capito le vere funzionalità dei social? Intendo la possibilità di rimanere connessi e diminuire le distanze?

«Ammesso che non l’avessero ancora capito, questa esperienza costituisce una linea di confine tra il prima e il dopo. In questi giorni, ad esempio, whatsapp sta assumendo una funzione indispensabile e non averlo a disposizione significa essere ancor di più isolati».

Il digital divide rimane ancora un problema, ci sono ancora moltissime persone nel Mondo a non poter essere connesse. È un ulteriore pericolo – secondo lei – durante il coronavirus?

«È un tema assai rilevante e di strettissima attualità. Penso che il fenomeno si stia manifestando soprattutto in relazione alle attività di teledidattica e telelavoro. Adesso iniziamo a capire il ritardo che abbiamo accumulato in determinati campi. Comprendiamo, per citare l’aspetto più critico, la vetustà della rete italiana, che ancora è ben lontana dal completare la transizione verso la fibra ottica. Pensavamo, magari, che avere a disposizione 1 gb di banda aiutasse soltanto a giocare on-line, piuttosto che a guardare film in streaming. Stiamo capendo, purtroppo a nostre spese, come invece la larghezza di banda in alcune situazioni possa essere vitale. Anche l’adozione del 5G potrà dare una grande mano in tal senso. C’è poi da fare i conti con il cosiddetto “divario di utilizzo”, non strettamente correlato agli strumenti a disposizione, bensì alle capacità degli utenti. Quanti insegnanti, ma anche studenti, hanno avuto enormi difficoltà a gestirsi nelle piattaforme utilizzare per le lezioni?».

In questo momento, siamo iperconnessi ma la percezione della reclusione rimane totalmente soggettiva, qual è la sua?

«Per motivi di lavoro sto vivendo un’esperienza diversa da molti. Da responsabile della comunicazione dell’Unità di Crisi del Policlinico universitario di Messina vivo la maggior parte della giornata in ospedale. La principale percezione che ho in questo momento è quella dell’incredibile sforzo e dei sacrifici che sta facendo il personale sanitario. È quella della difficoltà di una guerra contro un nemico subdolo, perché invisibile».

Un fenomeno che si sta scatenando è la diretta del “faccio qualcosa”. C’è chi suona, chi recita, chi cucina, chi prende in giro quelli che fanno, come lo definirebbe questo momento?

«Sono tutte manifestazioni che soddisfano quella dimensione ludica di cui ciascuno di noi, indipendentemente dall’età, non può fare a meno e che in questo momento aiuta moltissimo. Tra gli aspetti che mi incuriosiscono maggiormente c’è quello che definisco “effetto sfondo”. Sempre per lavoro, per adesso, sto infatti sfruttando – al pari di tutti i colleghi – lo strumento della videoconferenza. Ed è interessante notare come ciascuno scelga appositamente lo sfondo su cui apparire. Ho visto un’ampia rassegna di librerie e di pareti trasformate in vere e proprie pinacoteche; ho visto caminetti, probabilmente accesi solo per l’occasione e pareti attrezzate con ampio sfoggio di soprammobili».

È abbastanza chiaro che il mondo dei social network aderisce perfettamente alla realtà, quando arriveremo alla fine della reclusione, cosa – secondo lei – dovremmo aspettarci sulle nostre bacheche?

«Sarà una sorta di festa della liberazione collettiva, in cui ciascuno celebrerà a modo proprio il ritorno alla normalità. Penso che vedremo soprattuto tanti abbracci, il gesto che probabilmente restituirà in modo più plastico il superamento dell’incubo».

La cosa che la spaventa di più, in termini sociologici e comunicativi?

«Più di una. Il panico di massa, che in questo momento sarebbe incontrollabile e che, però, è purtroppo un rischio concreto in tale contesto. L’alienazione, cioè il reagire all’isolamento… isolandosi ancora di più in sé stessi. L’individualismo che rischia di fare prevalere gli interessi di ciascuno di noi sulle regole e le raccomandazioni da osservare in questi giorni: ciò potrebbe trasformarci in una potenziale fonte di contagio».

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  1. Credo che dal punto di vista globale alla fine cambi ben poco. La velocità con cui l’ “individuo” si adatta, “aiutato”, per così dire, dall’informazione globale, è incredibilmente veloce. I soliti temi della ripresa e della crescita, dello sviluppo e della ricerca cavalcheranno e scavalcheranno anche l’evento coronavirus. La scienza è diventata dio. Gli scienziati sono intoccabili sacerdoti, che possono anche prometterci un futuro di immortalità. Un nuovo medioevo? e poi? un’ altra peste?

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