La peste del 1743 a Messina
Di epidemie a Messina ce ne furono diverse – il professor Franz Riccobono le ha già ricordate – , ma la più nota, che ha avuto anche risonanza a livello internazionale fu la peste scoppiata 1743, che mise in ginocchio la città causando oltre 50mila morti e decimando così la popolazione.
«Nel marzo del 1743 – racconta Franz Riccobono – una nave condotta dal Capitano Aniello Bava, con un equipaggio genovese di 13 persone, attraccò a Messina. L’imbarcazione proveniva da Missolungi, vicino Lepanto, dove imperversava la peste». Il Capitano, che in realtà si chiamava Jacopo Bozzo e che aveva perso, non dichiarandolo, due membri dell’equipaggio a causa del morbo, fu con le sue menzogne il responsabile della diffusione della peste nella città dello Stretto. Lui stesso era ammalato, così come gli altri suoi compagni di viaggio.
Fatta questa scoperta, la nave venne trasferita al porto, nei pressi del Lazzaretto, per essere bruciata su indicazione delle autorità ma, spiega il professor Riccobono: «All’interno dell’imbarcazione vi erano tessuti e grano che qualcuno recuperò, sottovalutando il pericolo».
Fu allora che si misero in moto tutte le procedure per contenere il contagio, dalla chiusura del porto e delle chiese, all’isolamento totale della città, realizzato tramite due cordoni sanitari, uno da Pagliara a Spadafora (Cordone di Monforte di Villafranca); l’altro da Taormina fino a Milazzo (Cordone di Malvagna di Resuttana di Carcaci poi di Spadafora). «Venne creata – spiega Franz Riccobono – una specie di muraglia cinese. Venne scavato un fossato, mentre nei fiumi furono piantati dei cavalli di frisia (Cavalletto di legno intorno al quale è avvolto e fisso del filo di ferro spinato, ndr). Le sentinelle controllavano costantemente i “confini”. Fu un lavoro straordinario».
Già allora, come oggi ai tempi del coronavirus, vennero quindi adottate misure di contenimento rigide che prevedevano il blocco quasi totale delle attività cittadine e l’isolamento di Messina dal resto del mondo. Le chiese erano chiuse, le celebrazioni sospese, così come le processioni. Proprio su questo punto, però, ci si deve soffermare un momento.
«Nonostante fosse stato vietato – spiega Franz Riccobono –, per la festa della Madonna della Lettera venne organizzata una processione “abusiva” che causò una ancora maggiore diffusione dell’epidemia». I contagi e le morti andarono poi scemando fino a ridursi del tutto verso ottobre. Il merito di aver “salvato” la città dalla peste venne attribuito a San Placido che, insieme alla Madonna della Lettera e a San Rocco furono considerati nel tempo i protettori di Messina dalle epidemie.
Messina pagò un prezzo altissimo in termini di vite umane a causa della peste del 1743, abbiamo già ricordato che i morti furono oltre 50mila, buona parte della popolazione. Tra questi, anche i membri del Senato messinese che, dopo aver inizialmente sottovalutato la situazione – come sottolinea Franz Riccobono – per contenere i danni economici, si prodigarono per salvare la città. Di loro ne rimase in vita uno solo e il Vicerè dovette nominare un nuovo Senato.
A sostenere la città nel contrasto all’epidemia, si richiesta di Carlo di Borbone, furono anche due medici spurgatori mandati da Venezia, il veneziano Pietro Polacco e il livornese Don Lazzaro Rampezzini. Una volta cessata l’epidemia, si procedette alla sanificazione dell’intero territorio, avviata intorno al dicembre del 1943 e terminata nella primavera del 1944. Messina fu poi dichiarata “città liberata dalla peste” nel 1945, i commerci ripartirono e tutto tornò pian piano alla normalità.
La peste del 1743 e i villaggi
Sebbene alcuni villaggi (dove tra l’altro si rifugiarono molti messinesi) furono risparmiati dall’epidemia di peste del 1743 per via del loro isolamento, non tutti ebbero la stessa sorte. Per fare qualche esempio, Molino, Altolia e Massa San Giorgio non registrarono casi, mentre Giampilieri fu tra i territori più colpiti con circa 700 morti. A Zafferia persero la vita 150 persone, a Galati 70, a Gazzi 200.
Un caso particolare fu quello del villaggio di Pezzolo, nella zona Sud di Messina: «Finto il contagio, un uomo di Pezzolo si è recato a Giampilieri – racconta Franz Riccobono –, dove erano morte 700 persone, su una popolazione di un migliaio, è entrato nelle case abbandonate e ha rubato tessuti, oggetti di vario tipo, chiaramente infetti. Tornato al villaggio, l’uomo portò con sé anche la peste, contagiando quasi tutti. A Pezzolo, che contava circa 670 anime, alla fine dell’epidemia contò circa 600 morti».
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