La Vittoria di ogni giorno ( L’unicità dei figli e l’importanza di un fratello)

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la_vittoria_di_ogni_giornoUno dei valori più importanti trasmesso dai miei genitori riguarda l’unicità dell’individuo, l’affermazione della propria personalità e la forza di distinguersi dalla massa.

Tuttavia, se oggi tale caratteristica del mio carattere è certamente fonte di comune apprezzamento, il percorso anche psicologico svolto per raggiungere tale maturità, indipendenza e successo non è risultato scevro da perplessità e disagi.

Diciamo che il concetto appena esposto è stato ragionato da qualche tempo. In realtà, per quasi tutta la nostra vita, i miei fratelli ed io, ci siamo interrogati sul perché se si usasse una marca di pantaloni, giubbotti o magliette noi dovessimo avere solo indumenti sconosciuti e/o fuori moda.

Il principio assolutamente incomprensibile agli occhi di bambini, adolescenti ed infine ragazzi ,si basava su una premessa inaccettabile che non consisteva nel più sincero ed apprezzabile “quella maglietta che hanno tutti i tuoi amici costa troppo e voi siete tre quindi si usa una maglietta più economica” ma si trattava, al contrario, di una inaccettabile forzatura interpretativa del concetto di eccezionalità “ma guarda che la tua maglietta è costata quanto quella di tizio solo che la tua non ce l’ha nessuno!”

Eporcavaccasecondoteperchèèèè???????

Durante i primi anni di vita rispondevo con serenità: “Mamma, ma a me piace la maglietta di tizio”. Venivo guardata da mia madre con disprezzo e, dopo due sberle, ero costretta ad allontanarmi fingendo di aver capito la lezione.

Durante l’adolescenza, in piena contestazione, urlavo: – “La mia maglietta FA CAGAREEEEEE” – ma guadagnavo sempre due belle sberle.

Infine, da ragazza rassegnata, ma non convinta, chiedevo: – “Potrei comprare tre magliette assolutamente anonime al prezzo di questa costosa cagata che mi hai comprato tu mamma?” – continuando a guadagnare due sberle da mia madre e svariati sfottò all’Università.

Altro che metodo Montessori!

Comunque, tutta questa premessa, per raccontarvi che oggi guardando i bambini mi sono resa conto di quanto stia perdendo di vista questo valore della distinzione e della unicità senza preoccuparmi di tramandarlo ai miei figli.

Loro hanno i gadgets vari dell’uomo ragno, dei Gormiti, di Barbie, dei minypony. Si usano. Temo che li stia omologando alla collettività, li globalizzo scolorendo la loro personalità.

Ricordo, che quando ancora non sapevo nuotare e tutti avevano i braccioli di Superman o di Candy Candy o le ciambelle di Olivia e Braccio di Ferro, mia madre mi costringeva ad indossare un vistosissimo, ed a mio parere assolutamente orrendo, giubbotto di salvataggio rosso fuoco con varie stringhe gialle.

Sempre sciorinando il concetto dell’unicità e dell’eccezionalità della sua bambina e degli acquisti fatti per lei.

Aggiungiamo pure che il mio peso all’epoca -avevo circa quattro anni – oscillava tra i settanta e gli ottanta kg.

Così, andando da sempre in vacanza a Giardini Naxos, quando mi facevo il bagno mi si vedeva da Castelmola, Taormina e Sant’Alessio. Sembravo una boa con venti pneumatici attorno.

Preferivo sudare per tutto il tempo della permanenza a mare piuttosto che indossare quell’oggetto raccapricciante.

A volte, mi facevo promotrice nell’organizzazione di interessantissimi giochi in riva al mare, che consistevano nel farmi tirare secchiate d’acqua dagli amici consentendomi di ottenere refrigerio evitando l’immersione e, quindi, l’utilizzo di quel mostruoso aggeggio.

Vi chiederete come si conclude questo racconto?

Ebbene si conclude con un ricordo ed una promessa.

Il ricordo:

Un giorno, traumatizzata ed angosciata dal pensiero di questo maledetto salvagente, andai a parlarne con i miei fratelli.

Esposi loro le mie ansie sul fatto che quando riuscivo ad indossarlo -perché comunque va detto che mia madre non riusciva neppure a legarmelo correttamente, avvinghiando la mia enorme pancia in un sistema di cinghie laceranti e chiusure a scatto in cui sistematicamente impigliava centimetri di pelle, che comunque una volta immersa in acqua si sganciavano rischiando di farmi annegare – tutti mi prendevano in giro e che io volevo una semplicissima ciambella anche tutta di un colore, mi serviva solo per fare il bagno!

Mia sorella, dieci anni più di me, sempre pacata e razionale, mi disse quanti sacrifici facessero i miei genitori per mantenerci e quanto dovevo essere grata per il salvagente che era costato svariate lire ed era il massimo della tecnologia di galleggiamento in commercio, ed aggiunse che non dovevo interessarmi del giudizio degli altri che in realtà mi invidiavano, ridevano di me cercando di ottenere in prestito l’ambito oggetto.

Io la guardai aggrottando le sopracciglia e con le braccia interrogative sui fianchi rivolsi lo sguardo verso mio fratello, dodici anni più di me, impulsivo e istintivo.

Nei miei occhi c’era un misto di speranza, disperazione e soprattutto la richiesta implorante di non ripetere le fesserie che aveva detto mia sorella.

E, come sempre, mio fratello, da vero uomo, non parlò.

Sollevò i miei 70 kg con notevoli difficoltà, uscì nel giardino, mi trascinò fino in piscina e mi ci buttò dentro.

Mentre annaspavo cercando di sopravvivere mise le mani attorno alla bocca per farmi sentire meglio poche illuminanti parole: “se impari a nuotare buttiamo il salvagente!”.

Quel giorno non morii, imparai a nuotare ma, soprattutto, imparai a sopravvivere.

La promessa la faccio ai miei figli: la mamma troverà un’alternativa per farvi sentire sempre unici.

Vittoria Gangemi

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