Già lo scorso dicembre, la Cassazione aveva annullato, con rinvio,
l’ordinanza che disponeva gli arresti domiciliari per Daniela
D’Urso, moglie dell’ex sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca, indagata nell’ambito dell’inchiesta Corsi d’oro, lo scandalo che colpì il mondo della Formazione messinese. La sesta sezione penale della Suprema Corte, accogliendo l’istanza inoltrata dall’avvocato Nino Parisi, legale della D’Urso, aveva ritenuto che per lei non esistesse la necessità delle esigenze cautelari. Pertanto aveva rinviato al tribunale messinese la decisione: o motivare diversamente l’ordinanza, oppure disporre la revoca degli arresti domiciliari. Avverso la decisione della Suprema Corte , la Procura messinese aveva fatto ricorso al Tribunale del Riesame, che lo ha
rigettato e stabilito che Daniela D’Urso non andava arrestata.
L’inchiesta sulla Formazione, ramo Ancol, era stata avviata nel 2007, ma solo nel novembre 2012 era arrivata la chiusura indagini per uno degli “eccellenti” arrestati nel luglio 2013: Melino Capone, ex assessore comunale alla viabilità ed ex commissario regionale dell’Ancol. Il sostituto procuratore Camillo Falvo, per lui ipotizzava il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. I Riflettori della magistratura furono accesi sull’Ancol, (Associazione Nazionale delle Comunità di Lavoro), per accertare la legittimità dei finanziamenti ottenuti dalla Regione Siciliana, per 13 milioni e 600mila euro, dal 2006 al 2011. Il 70%
erogati dal Fondo Sociale Europeo, il 21% dallo Stato e il 9% dalla
Regione Siciliana. Sempre a detta dell’accusa, poi, l’Ancol assumeva
personale “amico”. Capone- stabilirono al tempo le indagini delle
Fiamme Gialle- assunse l’intero parentado. . E posto c’era- sostenne
l’accusa – per amici e parenti degli amici politici, messinesi, regionali e nazionali. Per loro la paga base variava dai 1200 ai 1600 euro. Daniela D’Urso percepiva “comunissimi” 1699 euro al mese.
Ma il vero “ritorno” della Formazione – qualcuno lo ha pure ammesso-
non era il denaro nè la “sistemazione degli affini”. Il vero ritorno era il consenso elettorale. Basta un “posto” nell’ente per ottenere il voto dell’intero parentado del beneficiato. E in Sicilia, si sa, la famiglia è sacra. Una “famiglia” che, dunque, finì sotto la lente di ingrandimento della procura messinese, coinvolgendo, nel prosieguo delle indagini, altri due enti di formazione nell’inchiesta che venne denominata “Corsi d’oro”: Lumen e Ancol, che nella tesi sostenuta dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita e dai pm Camillo Falvo, Fabrizio Monaco ed Antonio Carchietti, ruotavano attorno al sistema grazie al quale venivano gonfiati i prezzi delle prestazioni di servizio o degli acquisti di beni necessari per l’attività degli enti. In particolare gli inquirenti avrebbero accertato prestazioni totalmente simulate e sovrafatturazione delle spese di gestione.
Parenti ed amici vennero indagati, 10 finirono agli arresti domiciliari nel luglio scorso. Tra questi, accusate di associazione a delinquere finalizzata al peculato e alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche destinate al finanziamento di corsi formativi nell’ambito di progetti approvati dalla Regione e finanziati con denaro proprio, dello Stato e del
Fondo sociale europeo, furono confinate ai domiciliari anche le mogli dei due ex sindaci di Messina. Oltre la D’Urso, anche Chiara Schirò, moglie di Francantonio Genovese, sul quale adesso pende la richiesta di arresto inoltrata alla Camera.
Oggi, per il Tribunale del Riesame, Danela D’Urso non andava arrestata.
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