Università e concorsi P.A. Scrive Guglielmo, studente che punta più alla causa che all’effetto

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“L’ipocrisia italiana è tutta qui; nell’incapacità di guardare con serenità alla realtà dei fatti, anche cruda, spietata, ma ripartire dalle cause.” E’ uno stralcio della lettera che Guglielmo Sidoti, studente messinese di 23 anni, invia alla redazione di Normanno. Questo stralcio è il “cuore” di una cruda disamina del “sistema Università”.  E’ lunga, ma va letta da cima a fondo, perchè chi scrive non è lo studente che si piange addosso, ma quello che esorta a “riconoscere” le vere cause dell’impasse del laureato messinese.

La lettera di Gugliemo Sidoti:

” Scrivo in merito al dibattito sulla riforma della P.A. e, nello specifico, l’annunciata “rivoluzione” dei concorsi pubblici. In questi giorni, su social network e stampa, ho assistito ad una feroce critica nei confronti dell’emendamento presentato dall’On. Marco Meloni – che prevede una delega al Governo per disciplinare in chiave più selettiva l’accesso ai concorsi – maturando alcune riflessioni delle quali vorrei rendere partecipe Lei ed i Lettori.

Se è vero che in questi anni spesso abbiamo assistito a tentativi, più o meno evidenti, di svalutare il nostro sistema formativo, ritengo tuttavia che l’emendamento presentato da Meloni sia poca cosa rispetto a quanto è in atto, e per molti aspetti realtà da diversi anni. L’emendamento, infatti, considera il “superamento del voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi e la possibilità di valutarlo in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti”. Non è un mistero che da tempo i laureati degli atenei considerati “minor” abbiano titoli finali meno appetibili sul mercato del lavoro, che li considera sopravvalutati. Viene da chiedersi quale sia il motivo per cui alcuni atenei sopravvalutino i propri studenti. La risposta ha una sigla FFO ed un nome Fondo Finanziamento Ordinario.

Praticamente il finanziamento statale che costituisce la principale fonte di entrata per le università del nostro Paese. Tale fondo premia quelle con il maggior numero di laureati in corso e con buona media, motivo per cui alcuni atenei scelgono scientemente di essere più generosi di altri nelle loro valutazioni. Trend, questo descritto, che è in parte la ragione dei voti “alti”, che pur ha indotto la richiesta di “valutarlo (il voto di laurea) in rapporti a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato”. Affrontare la questione delle risorse alle università punta direttamente al cuore della intera vicenda, per gli studenti di Messina e delle università del Mezzogiorno: ovvero che i laureati del Sud sono vittime della necessità, da parte dei propri atenei, di acquisire risorse che mancherebbero altrimenti. Risorse indispensabili per la qualità della formazione da offrire ma che – se da un lato producono votazioni medie più alte – alla lunga stanno inficiando il reale valore di laurea dei propri iscritti che, sul mercato del lavoro – cioè nella vita reale – hanno minore appetibilità di atenei anche più stretti nella media valutativa, ma di maggiore credibilità per imprese e datori di lavoro.

Queste considerazioni sono statisticamente riscontrabili e – del resto – chiunque abbia un fratello o un cugino laureatosi negli anni Novanta potrà ricordare come le lauree in certi corsi di studio di alcune università italiane, benché a pieni voti, non venissero neppure prese in considerazione da imprese e datori di lavoro.
Concorsi per la pubblica amministrazione o meno, i laureati degli atenei del Sud non hanno le stesse possibilità dei propri colleghi del Nord. Il fatto di non riconoscere il proprio carnefice e sentirsi piuttosto vittime di una imprecisata volontà di privare gli studenti del Sud di pari opportunità mi induce a credere che l’attuale dibattito sia privo della volontà di dare risposte concrete a chi per la propria formazione spende, soprattutto dall’ultimo anno, fior di quattrini per conseguire un titolo finale che risulta poi non appetibile sul mercato del lavoro. Piuttosto che affrontare la questione con lucidità, aprendo un dibattito pubblico ed una riflessione sulle reali cause che portano a questa discriminazione si preferisce gridare allo scandalo, invocare la Costituzione e crogiolarsi nel complesso dei figli di un dio minore che da sempre ci accompagna.

Anche il diritto allo studio, sempre invocato e mai attuato, non viene considerato nel suo ruolo finale, sancito dall’articolo 34 della Costituzione e che permetterebbe ai più meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione, a qualsiasi latitudine. Parliamo di borse di studio, assegni alle famiglie, la possibilità di scegliere un percorso sulla base delle proprie inclinazioni e non sulle possibilità economiche. Mobilità, percorsi d’eccellenza: tutti strumenti che dovrebbero diventare centrali nelle rivendicazioni studentesche e in maniera permanente, poiché sono le risorse che mancano sempre più a generare l’esplosione di fenomeni come l’aggiramento dei criteri del FFO. Come, anche, incide profondamente in tale contesto la moltiplicazione di minuscoli atenei di provincia o para-privati, ideati e collocati nei feudi di baroni elettorali, solo per assegnare posti e posizioni di comodo per professori universitari e classe docente in cerca di collocazione. Un numero – quello di atenei – che non ha eguali in Europa e che drena risorse dalla vera necessità ed urgenza: la qualità dell’insegnamento, la sua concentrazione in pochi atenei di grande competitività, con risorse da destinare ai meritevoli.
Per percorsi formativi contemporanei e non legati alle baronie di cemento armato che da decenni imbalsamano il sistema universitario italiano, specie al Sud.
Di fronte a tutto questo, in un percorso di rinnovamento della Pubblica Amministrazione, di fronte alla constatazione che le università italiane – è un dato di fatto – non formano tutte alla stessa maniera, come ci si può domandare il perché il Legislatore non debba oggi prevedere dei criteri di ulteriore selezione all’ammissione ai concorsi? Forse che gli stessi laureati che le imprese non vogliono dovrebbero essere presi indistintamente a carico della Pubblica Amministrazione? In un periodo storico in cui i saldi di bilancio dello Stato, peraltro, non consentono più tali scelte? E’ questo il “merito”, è questa la “difesa della Costituzione”? O è forse pura conservazione, non riconoscere i nostri errori e i nostri difetti, non vedere la realtà per poi seriamente e con coraggio affrontarne i problemi costitutivi, quelli reali, non quelli da tastiera? Abbiamo sacrificato per anni, sull’altare del finanziamento statale, il destino di migliaia di giovani. Ce ne rendiamo conto soltanto adesso di una diseguaglianza che nel mercato del lavoro c’è da anni?

Forse mi sono dilungato troppo, ma tanto c’è da dire sulla questione affrontata. L’ipocrisia italiana è tutta qui; nell’incapacità di guardare con serenità alla realtà dei fatti, anche cruda, spietata, ma ripartire dalle cause. Siamo il Paese più sviluppato con la mobilità sociale più bassa: sarebbe meglio discutere di diritto allo studio prima che di altro. Forse peggiorerà con la riforma della P.A. ma possiamo davvero dire di aver affrontato il problema partendo dalle sue radici? Provando a risolverlo una volta per tutte e raggiungendo la effettiva uguaglianza tra atenei? O sarà forse l’immobilismo di chi difende un sacrosanto diritto, costituzionalmente sancito, del valore legale del titolo di laurea a salvarci dalla disoccupazione? Forse può funzionare nel pubblico, ma quando un laureato messinese, magari con 110 e lode, si presenterà per un colloquio con una di quelle banche che ha chiuso con le ‘minor’, cosa dirà all’affermazione “il suo titolo è sopravvalutato”? Non sarebbe più corretto sottrarre le università pubbliche da tali meccanismi e necessità ricercando in altro i criteri di premialità? Mettendole in “competizione”, ma sul merito, sulla capacità di erogare servizi, migliorarne la didattica, incrementarne la ricerca, costruire le basi per costruire partenariati con imprese e attività produttive. Sono questi, in buona parte, i criteri di valutazione dell’ANVUR. Sono questo ciò che mi aspetterei da atenei, che per quanto siano agli ultimi posti, spillano migliaia di euro di tasse ogni anno.”

Guglielmo Sidoti

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