Al netto delle ragioni perdenti e serie del SI’ e di quelle comprensibili e vincenti del NO, all’indomani del referendum greco le associazioni del nostro cervello sembrano suggerite dai mass media. Sembriamo tutti Woody Allen: “Ho frequentato un corso di lettura veloce, funziona. Ho letto “Guerra e pace” in venti minuti. Parlava di Russia.”
Ed ecco la Grecia, vittima del neoliberismo, assurgere a modello per una nuova Europa, partecipata e democratica. Nonostante i numeri ci mostrino una realtà differente. Per le elezioni Amministrative, in Italia, ha votato il 63,21% degli aventi diritto al voto, mentre alle Regionali il 53,90%. Alle Europee il 58,69%. In Grecia, ad un referendum destinato a decidere le sorti del Paese, il 62,5%. Ma è una vittoria della democrazia, e non si discute. Esattamente come le responsabilità della “grande finanza internazionale”. Il 60% del debito Greco, infatti, appartiene ai Paesi europei, il 10% al Fmi, il 6% alla Bce e solo il 19% al settore privato. Ma anche questo è un dettaglio.
Siamo tutti greci, o forse no. Non lo siamo, perché l’Italia non ha subito l’austerità incredibilmente dura della Grecia. La chiusura degli ospedali, la malnutrizione infantile, la disoccupazione stremante, la ricerca disperata di un pasto caldo e di un dormitorio. Le lunghe file per un indumento usato o medicine, altrimenti, irreperibili. Un Paese ridotto alla sopravvivenza, che pur ha generato il suo debito distinguendosi in Europa come ultimo della classe, attraverso decenni di politiche scialacquone, conti truffaldini, evasione fiscale alle stelle, un welfare discutibile con le sue molte pensioni per finti ciechi e figlie nubili dei funzionali statali (norma, quest’ultima, abolita).
No, non siamo greci. Non lo siamo perché la Grecia ha lottato isolata per la sua dignità. E sempre da sola ha vinto la paura. E mentre noi, comodamente da casa o a piazza Syntagma, ad Atene, festeggiamo una vittoria che non ci appartiene, arrogandoci meriti retorici, il ministro dell’economia Varoufakis si dimette. Lo fa dopo una vittoria, ribaltando l’italico attaccamento alla poltrona, persino dopo una sconfitta.
Non siamo tutti greci, quando a partire da oggi, e consapevolmente, il popolo ellenico continua a lottare solo, intravedendo all’orizzonte lo spettro del baratro.
Non siamo tutti greci neanche quando dimentichiamo che i creditori siamo noi. E che per quanto la realtà sia cruda la Grecia è, allo stato attuale, un debitore insolvente, che chiede a UE, Bce e Fmi altri soldi per sopravvivere e ripagare un domani.
Certo, occorrerebbe un’Europa più aperta a politiche di solidarietà, mentre contestualmente persegue gli aggiustamenti dei bilanci pubblici, al fine di mitigarne gli impatti più feroci del risanamento. Ma su un punto non ci piove: la Grecia deve assumersi le responsabilità di una scelta informata. Deve rimettere a posto i conti, questi in casa, e ripartire con le proprie gambe. Restituire quanto ha ottenuto in prestito. Perché un Paese in debito non è un Paese libero. Non lo sono le sue giovani generazioni, che al referendum hanno votato in massa NO: scelta comprensibile, da parte di chi, oggi, paga un debito non suo.
E in fondo, la simpatia greca è tutta qui: in un irriducibile richiamo alla libertà del cittadino non più suddito. Che si ribella al più forte, non si lascia umiliare. Ci ricorda le Termopili, ed il sacrificio di un manipolo di eroi disposto, anche a costo della vita, a difendere la propria libertà dal gigante persiano. Questo mix di libertà, onore e amor patria ci induce a sentirci tutti greci, anche se è soprattutto per questo che non lo siamo.
Guglielmo Sidoti
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