Il fenomeno dei Beatles è certo uno dei più complessi del Novecento. Più di una generazione è legata visceralmente alla loro musica, ma non solo. I quattro ex ragazzini di Liverpool hanno influenzato il costume, la politica, la moda: insomma, qualsiasi lato del costume dell’epoca. I loro modi e la loro musica, nonostante gli anni, continuano, a mio parere, a non cadere nella grande categoria del “vintage”, nella quale amiamo relegare qualsiasi cosa odori di vecchio ma che riteniamo ancora vivo nella nostra società. Semplicemente, la loro musica ancora non odora di vecchio. In particolare, non sono vintage tutti i loro dischi pubblicati, a partire da Revolver, che oggi compie cinquant’anni.
Revolver è la summa della nuova musica proposta da Lennon, McCartney, Harrison e Starr: un perfetto mix di grande scrittura autoriale e arrangiamenti magistrali curati dal produttore George Martin (la sua recente scomparsa e la sua omonimia con l’autore di Game of Thrones ha gettato nel panico, risibilmente, i fan della serie americana). Un’opera certosina di artigianato in fase di postproduzione chiude il cerchio del loro genio. È forse la fase di produzione, che ho appena definito “artigianale”, l’unica componente vintage del loro processo creativo, visto l’ingresso prepotente del computer in ogni studio di registrazione odierno.
Ma, se il precedente Rubber Soul (1965) è il disco spartiacque tra la prima e la seconda fase della produzione dei Beatles, Revolver è senza dubbio la conferma del loro nuovo, geniale approccio alla produzione musicale.
Taxman, Eleanor Rigby, I’m Only Sleeping, Love You To, Here, There and Everywhere, Yellow Submarine, She Said She Said, Good Day Sunshine, And Your Bird Can Sing, For No One, Doctor Robert, I Want to Tell You, Got to Get You into My Life, Tomorrow Never Knows: chiunque di noi conosce almeno due o tre canzoni di questo splendido disco.
Purtroppo questi pezzi non vennero mai suonati dal vivo in quel periodo, perché pochi anni prima il gruppo aveva fatto la scelta di non fare più concerti. Il loro successo planetario era infatti giunto in anticipo rispetto allo sviluppo della tecnologia audio che oggi permette alle band moderne di suonare davanti a folle oceaniche: il 15 agosto 1965 allo Shea Stadium di New York, davanti a più di 50.000 fan in preda a crisi di nervi, i Beatles suonarono con il solo ausilio dei loro amplificatori da palco, collegati all’impianto audio della struttura. Non riuscirono neanche a sentirsi suonare. I Rolling Stones furono i primi a usufruire di una buona tecnologia, anni dopo.
Inoltre, Revolver era un disco talmente complesso da risultare non riproducibile dal vivo, almeno per gli standard dell’epoca. La rivista Rolling Stone oggi lo colloca al terzo posto tra i cinquecento dischi migliori della Storia.
Sappiamo tutto come è finita la loro vicenda: l’ingresso di Yoko Ono in sala di registrazione e le tensioni che ne seguirono resero impossibile la collaborazione tra un McCartney sempre più nervoso e il resto del gruppo. Tuttavia, i pochi anni in cui sono stati insieme hanno cambiato il modo di concepire la musica e molto di più. In precedenza ho fatto accenno alle folle oceaniche attirate da questi quattro ragazzi: non si tratta di un fenomeno semplice. Con loro, per la prima volta nella Storia, le enormi masse si sono riunite in piazze e stadi per un motivo non inerente a una rivoluzione o a una guerra. Già i totalitarismi, primi fra tutti quello italiano e quello tedesco, avevano attirato le grandi folle, aiutati dai nuovi media dell’epoca. I Beatles hanno attirato le masse del secondo Novecento con il solo ausilio di due chitarre, un basso, una batteria e quattro voci; e certamente, con l’ausilio di canzoni che parlavano solo ed esclusivamente d’amore.
Saverio Vita
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