Dallo Sciusceddu ai Panini di cena: la storia delle ricette pasquali messinesi

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La Pasqua si avvicina e con essa, inevitabilmente, tornano anche le abbuffate. Quella messinese non è una cucina povera, perlomeno non di calorie. Il motivo è abbastanza semplice, come sostengono alcuni ristoratori della città: “Unu quannu mancia s’ava inchiri a panza” (uno quando mangia deve riempirsi la pancia). Ecco allora perché tutti i piatti pasquali messinesi non badano ai valori nutrizionali da rispettare in una dieta ferrea ed equilibrata. Se però è vero che tali pietanze non fanno troppa attenzione a proteine, carboidrati e grassi saturi, nondimeno la loro composizione e la loro preparazione affondano le radici in un processo culturale tutt’altro che banale: la tradizione. Da bambini non si studia, ma viene tramandata e di conseguenza si assimila. Così, Messina ha preservato la cuddura, i panini di cena, lo “scusceddu” e la famosa pecorella di Martorana.

Il “panuzzo” che sembra una brioche (ma senza il tuppo)

piatti pasquali messinesi

In un periodo, quello dell’emergenza Covid, purtroppo dominato dalle varianti, a Messina ne esiste una che fortunatamente non nuoce alla salute, ma, anzi, può rendere felici. Si tratta dei panini di cena, un pane speciale considerato la variante della più nota brioche. La principale differenza tra i due è l’assenza, nel panino di cena, della classica protuberanza (o “tuppo”) in cima.

L’origine di questi “panuzzi” proviene dall’antica tradizione contadina messinese, la quale, partendo da una base di uovo e strutto, arricchiva il pane con spezie e sesamo. Gli ingredienti “nascosti” sono i chiodi di garofano, la noce moscata e la cannella, che producono un tripudio di sapori adatto sia per i palati dolci che per quelli più salati. Il panino di cena gioca sulla metafora dell’ultima cena di Gesù. Secondo il Vangelo, fu proprio il pane l’ultimo alimento consumato dagli apostoli prima della morte di Cristo. Una volta, infatti, venivano preparati appositamente per il giovedì santo, lo stesso giorno dell’ultima cena.

Paese che vai, cuddura che trovi

piatti pasquali messinesi

Il dolce pasquale messinese per antonomasia è la “cuddura“. “Pupi cu l’ova”, “cuddureddi”, “aceddu“, “campanaru“, sono infinite le declinazioni di questo biscotto in Sicilia. A Messina si è sempre chiamato cuddura (dal greco “kollýra, pagnotta) ma la derivazione storica è la stessa per tutto il Sud Italia.

Durante la Quaresima, la religione cattolica impone un periodo di rinuncia personale, il cosiddetto fioretto. Oltre all’astinenza da carne, attualmente osservata dai fedeli, in passato tra i cibi “proibiti” figuravano anche le uova, che dunque abbondavano nel periodo pasquale e venivano donate con gli ornamenti più disparati. Da qui la varietà nelle forme: a Messina, e in gran parte della Sicilia orientale, è circolare come una corona o una ciambella; a Palermo può simboleggiare persone o animali; a Catania la colomba e in altre zone dell’estremo sud dell’Isola si utilizza addirittura il nome “panareddu” perché ricorda un cestino (“panaro”).

E per finire, gli irrinunciabili

Chi lo avrebbe mai detto che uno dei piatti più iconici della cucina messinese sarebbe stato preso in prestito dalla tradizione culinaria francese. È questo il caso dello “sciusceddu” (o truscello). Questo goloso sformato di ricotta di pecora e polpette di manzo è una vera e propria istituzione in Riva allo Stretto e avrebbe, a detta dei più attenti, origini francesi. Il mix di uova, brodo di carne, parmigiano, polpette e ricotta regala una commistione di sapori unica da assaporare la domenica di Pasqua. Lo sciusceddo è quindi l’apoteosi della Pasqua messinese: il pranzo domenicale è il momento in cui può terminare il digiuno quaresimale.

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Per dessert, la festività pasquale ha sempre offerto un’ampia libertà di scelta. La pastiera, la colomba e gli ovetti di cioccolato sono pietanze che ormai sono uscite dai confini regionali e si sono diffuse a livello nazionale. Una prelibatezza che tuttavia è rimasta endemica in Sicilia (e a Messina) è l’agnello. Non quello di carne, ma la sua rappresentazione in pasta di mandorla o di frutta Martorana. Da gustare alla gianduia o ai canditi, la pecorella è un’alternativa per il fine pasto adatta per grandi e piccini.

La sua storia non è direttamente legata a Messina, ma a Favara, un comune dell’agrigentino. Qui le suore del Collegio di Maria decisero di creare un dolce che ricordasse l’estremo sacrificio di Cristo «come agnello condotto al macello». Nel corso dei secoli, questo dolce è arrivato anche in altre parti della Sicilia, fino a Messina, dove ancora oggi resiste alla concorrenza delle più commerciali uova di Pasqua.piatti pasquali messinesi

(1873)

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