In siciliano delle cose sbagliate si dice che sono “storte”. Soprattutto lo diciamo dei figli, quando non rispondono alla programmazione. Le lingue antiche testimoniano convinzioni antiche, ma se sono ancora parlate tentano anche di descrivere la nostra realtà e il nostro tempo. E se non tutte le descrizioni sono obiettive, servono però a sollevare problemi.
Lo sa bene Alessandro D’Avenia, professore di lettere in un liceo di Milano, appassionato di educazione, scrittore Mondadori di grandissimo successo: due romanzi Bianca come il latte, rossa come il sangue (2011, 13 €), prestissimo il film nelle sale, Cose che nessuno sa (2012, 19 €),.
D’Avenia lo sa bene perché è palermitano e la frase siciliana sugli uomini storti l’avrà sentita molte volte. E sa bene che gli uomini non rispondono simmetricamente alle programmazioni perché ha a che fare con i programmi ogni giorno, insegnando. Nei dibattiti che, sull’onda del grandissimo successo editoriale, ha aperto in mezza Italia ama ribadire che davvero l’uomo adora la simmetria, teme la scoliosi, ha paura delle storture. Può poi essere storto nel viso, nella schiena, nelle dita delle mani, certamente sbaglia in molti e svariati modi ogni giorno facendo qualcosa di storto, ma non è sbagliato. I ragazzi della generazione “ i- eccetera” non sono ragazzini sbagliati. E questo non è per tutti davvero così scontato.
In un’Italia che è da poco rientrata a scuola, o è stata alle prese con i test di accesso all’università, che hanno suscitato accese polemiche, questi di D’Avenia sono discorsi di un professore convinto che ogni ragazzino è un uomo del destino, destinato a te da curare, ma soprattutto a una vocazione da scoprire e vivere. Convinzioni di un insegnante precario che ha intuito come si possa lavorare “in proprio” anche quando si deve obbedire a un ministero che non paga bene. Sono discorsi di uno scrittore con l’inclinazione alla divulgazione di positività, ai trenta della sua “formazione”, della sua classe, alle migliaia, in una Italia che intristisce in parole e opere immersa in una crisi molto più che economica. Un’inclinazione che è diventata in un paio d’anni un furor, ma molto sano, di eloquio e di consensi, da Palermo a Milano e ritorno, in moltissime città, in centinaia di scuole, piazze, carceri che hanno ricevuto la sua visita.
E sono discorsi da insegnante anche i suoi libri. Libri a banda larga, nelle intenzioni sicuramente e negli effetti evidentemente, romanzi che sembrano programmaticamente destinati alla grandissima diffusione, che parlano di adolescenti, ma sui quali il loro autore non ama l’etichetta “libro per ragazzi”: ogni età è rappresentata dai suoi personaggi, ogni età ha un rappresentate tra i suoi lettori, a quanto pare dal blog profduepuntozero quotidianamente affollato di ringraziamenti per le parole dette agli incontri con insegnanti e studenti (che lo scrittore sta raccogliendo per una prossima pubblicazione), commenti ai suoi articoli, che appaiono spesso su diversi quotidiani nazionali, e naturalmente ai suoi libri.
Bianca come il latte, rossa come il sangue, uscito nel 2010 e ancora in vetta alle classifiche dei più venduti, racconta la storia di un ragazzo che in pochi mesi impara per amore a spostare il centro dei propri interessi dalla sua chioma, da scolpire col gel, al suo sangue, da donare a una ragazza bianca di pelle e rossa di capelli ammalata di leucemia. Dal libro è stato tratto un film di prossima uscita, per la regia di Giacomo Campiotti, con Luca Argentero.
Cose che nessuno sa, un’altra storia che ha per protagonista è un’adolescente, stavolta al femminile, e racconta come sia possibile lanciarsi nel recupero di un padre svanito: da un libro che ha un fondale da cinema e la speciale portata di quotidiano delle fiction di alta qualità, un’intuizione tutt’altro che banale: Freud, la famosa “ammazzatina” del padre inevitabile e addirittura necessaria… Forse è finalmente roba del secolo scorso?
In un esercizio pedagogico ormai da anni davvero instancabile, esercizio che ama definire di paternità e maternità insieme, D’Avenia, che sottolinea spesso l’ereditarietà degli amori, ha avuto per guide gli amatissimi genitori, un quasi oscuro professore di lettere palermitano dal carisma antico e quel piccolo grande siciliano dal nome banale e dal cuore di ferro tenero, Padre Pino Puglisi (proprio nei giorni scorsi l’annuncio della prossima beatificazione del sacerdote, che sarà celebrata a Palermo il 25 maggio), e anche per questo è diventato una guida per tanti.
Ogni vocazione è all’amore. Qual è la nostra? “La mia vocazione è l’amore”, diceva una grande donna risolvendo con apparente semplicità un problema capitale che spesso la nostra civiltà accantona senza ponderare il vuoto che ne deriva, inevitabile. D’Avenia invece dal basso voluto della sua opera, che certamente non lo collocherà vicino a nessuno dei grandi scrittori del secolo, come vorrebbero i fan, con la sua generosa invadenza autobiografica tutt’altro che velata dalle parole, con il fiume di metafore anche troppo spiegate, con il romanticismo trasudato ad ogni pagina, pare aver risolto il proprio rebus originario così: la mia vocazione è la vocazione. Parlarne, aiutare gli altri a scoprirsi. Immettersi continuamente in un fiume di attività che ha una direzione chiara, mentre la maggioranza degli studenti giunti alla maturità non sa che fare del proprio futuro e la maggior parte degli italiani non sa cosa rispondere alla domanda: “come hai abitato il tuo futuro? Come è stato che è diventato presente? Perché fai questo lavoro?” Quello di D’Avenia è un lavoro meta-vocazionale: una vocazione realizzata che parla di vocazioni da realizzare. Lo fa nella vita, lo fa nella scrittura. Parole dette o scritte. Fa quasi lo stesso.
Ma, per capirne il successo, prendiamo gli estremi del pubblico possibile. Ora chiediamo a un ragazzo: vale la pena leggere libri che parlano al cuore dicendo molto spesso la parola cuore, che parlano dell’amore, che usano la tua lingua, in cui non mancano i riferimenti ad sms e lip gloss? Ora chiediamo a un intellettuale: vale la pena leggere un libro che leggono tutti, che dice cose per te troppo tenere e finisce, quando può, a lieto fine e la cui fama probabilmente non supererà il decennio?
Ricaviamo da soli la risposta come si fa in prima elementare con gli esempi, visto che siamo in aria di scuola. Prendiamo due quadrati. Uno è un quadro d’artista. Il secondo è un cartello luminoso. Sicuramente il primo, capolavoro di segni e tinte, ricco di significati intrecciati e reconditi è arte, vera bellezza. La amiamo, la contempliamo, non in molti.
I cartelli luminosi sono invece fatti di colori semplici, forme chiare, a volte lampeggiano per attirare un po’ l’attenzione. A volte, comunque, sono anche davvero belli. Li sanno seguire tutti. Quando perdiamo la strada abbiamo tutti bisogno dei cartelli luminosi. Per non andare troppo “storti”.
I libri di D’Avenia sono cartelli luminosi. Ci sarà un motivo se ai propri lettori sfegatati il professore D’Avenia, consiglia: amatemi pure tanto, ma leggete i classici…
Nella foresta del quotidiano, forse abbiamo bisogno tutti di cartelli luminosi, di libri di questo genere, restauratori di percorsi naturali, anzi umani. Poi, imboccata la strada, una volta lasciata la foresta, si trovano i supermercati, i ristoranti, le edicole, i nuovi pub, le vecchie balere, le case, i parchi, gli studi medici, le scuole, gli uffici regionali, i musei. E lì possiamo guardare il quadro che scopriamo più nostro. Poi uscire e farne uno stupendo anche noi, della nostra vita. En plein air. Sia che usiamo il pennello sia che usiamo la scopa di saggina per la strada. Lo strumento conta solo grazie alla mano che lo muove. E ogni strumento usato bene, suggerisce D’Avenia, arriva contento allo scopo.
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