Oggi, 65 anni fa, i ministri degli esteri degli stati membri della CECA si riunivano nella Conferenza di Messina e Taormina per piantare i primi semi di quella che è oggi l’Unione Europea. E oggi, nell’anniversario di quell’incontro, quasi all’indomani di un’emergenza sanitaria che ha sconvolto il mondo e gli stati membri, ritorniamo con la memoria a quelle due giornate, per ricostruire e riscoprire i valori, le idee e le contraddizioni che nutrono tutt’ora la comunità europea.
Per farlo, abbiamo chiesto al professor Raffaele Manduca, docente di Storia Moderna del Dipartimento di civiltà antiche e moderne (Dicam) dell’Università degli studi di Messina (UniMe), di riportarci indietro nel tempo, fino al 1° e al 2 giugno 1955, per poi riportarci all’attualità dell’Unione Europea. Ad accompagnare l’intervista, il video prodotto dalla piattaforma “Costruire storie” creata dalla stessa cattedra di Storia Moderna del Dicam dal titolo “Europa. Destino o utopia?”.
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Dalla Conferenza di Messina al coronavirus: intervista sull’Unione Europea al prof. Raffaele Manduca
Nata come organismo economico, l’Unione Europea non è però solo questo, almeno nelle idee dei suoi padri fondatori, che la immaginarono come unità di popoli insieme diversi e vicini, dalle radici e dalla storia in parte comuni. È per questo che oggi più di ieri, la comunità si trova ad un punto di svolta: rimanere soltanto un’unione economica, un semplice mercato, o rilanciare e riscoprire un’identità comune.
Ne parliamo con il professor Raffaele Manduca, partendo dalla Conferenza di Messina e Taormina.
I semi per la nascita dell’Unione Europea sono stati piantati anche in riva allo Stretto. Cos’è e cosa ha significato la conferenza di Messina e Taormina e perché si è svolta proprio qui?
«La conferenza di Messina e Taormina svoltasi dal 1° al 3 giugno 1955 tra i ministri degli esteri dei sei stati membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) sotto la presidenza del lussemburghese Joseph Bech era stato programmato a Lussemburgo, ma Martino riuscì a spostarlo nella sua città; qui si sarebbero dovute avviare nuove trattative per arrivare a una maggiore integrazione in materia di energia, compresa quella nucleare, e dei trasporti ma soprattutto in vista della costituzione di un mercato comune.
Le questioni sul tappeto della Conferenza di Messina riguardavano le istituzioni sopranazionali, si trattava sostanzialmente di estendere i poteri della CECA. Il dibattito rinviava così agli scopi e alla direzione del progresso di integrazione per capire se concepire l’unità economica come fine a sé o come parte di un orizzonte comune anche politico.
L’accordo giunse alla fine della Conferenza di Messina, all’alba del 3 e andava nel senso del proseguimento di una costruzione europea segnata da istituzioni comunitarie e in vista di un’integrazione delle economie nazionali che sarebbe culminata nella costruzione di un mercato comune e che avrebbe anche comportato, e questo oggi appare di estrema attualità, anche una armonizzazione delle politiche sociali dei partner europei. Un mercato che, come affermerà, negli anni successivi agli accordi di Roma, lo stesso Martino, fu allora un grande atto di fede nella libertà, intesa sia come ideale che come modo stesso di vita».
Il coronavirus ha messo alla prova il concetto stesso di Europa. Com’è stata l’Europa durante l’emergenza e come pensa che sarà dopo?
«La costruzione politica europea purtroppo non è una realtà e nemmeno un destino: la pandemia ha amplificato questa radicata convinzione di alcuni e il sotterraneo timore di molti. Se fino a pochi giorni fa essa appariva, soprattutto in paesi come l’Italia, una via senza alternative, il coronavirus dall’inizio ha messo a nudo le diversità profonde, non si sa ancora fino a che punto componibili, con cui i differenti paesi fanno riferimento all’Unione Europea.
«A parte alcune dichiarazioni: da quella della governatrice della BCE (Banca centrale europea, ndr) Christine Lagarde, con il suo iniziale, glaciale, atteggiamento che ha provocato il peggiore tonfo delle borse degli ultimi decenni, ai primi interventi della presidentessa della commissione europea Ursula Von der Leyen, per finire con le ciniche esternazioni del primo ministro olandese Mark Rutte, la scommessa europea sconta la mancanza di uno sforzo vero per costruire un comune sentimento di appartenenza in uno spazio segnato ormai da una platea esorbitante di lingue e tradizioni storico-culturali, un palcoscenico non da ora di interessi confliggenti e di contrapposizioni.
Gli stessi ultimi sviluppi, che in questi giorni vengono salutati positivamente, sul recovery fund, se dovessero tradursi in realtà concreta, mi sembra chiariscano, comunque, la direzione di un processo dipendente soprattutto dalla volontà dei due azionisti di maggioranza dell’Unione, cioè dei due nazionalismi, e il termine va inteso in senso alto, tedesco e francese, che ne determinano il corso, la direzione e l’intensità. Angela Merkel aveva già preannunciato da tempo questi risultati, persino nelle cifre, 750 miliardi di euro, e nel fatto che i fondi sarebbero arrivati solo dal bilancio europeo a partire dall’anno prossimo».
L’epidemia non è, però, l’unica sfida che l’Europa si è trovata ad affrontare dalla sua fondazione. quali sono stati i momenti che hanno maggiormente messo in difficoltà l’Unione e che più l’hanno plasmata?
«La domanda è complessa. Certo, dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura dell’Europa ai paesi dell’Est, soprattutto i temi legati alla Costituzione europea e la sua mancata ratifica segnano il primo momento di vera e percepibile crisi tra gli Stati membri. È chiaro poi che il crac finanziario mondiale del 2008 apre ulteriori profonde complicazioni nella politica economica dell’Unione».
Dopo tutto questo, cos’è oggi l’identità europea? È quella immaginata dai padri fondatori?
«Non credo si possa parlare oggi di una identità pienamente europea, ma di uno spazio economico comune che converrebbe a molti mantenere. Più che sui valori, quelli del pensiero liberale, dei diritti dell’uomo, e così via – di cui alcuni insiemi nazionali che rientrano nello spazio europeo sono stati la culla, giova anche ricordare che altre hanno dato i natali a due dei peggiori totalitarismi della storia –, l’Unione oggi rimane quasi esclusivamente un recinto economico: i termini del dibattito odierno riguardano, di conseguenza, solo gli equilibri, le preminenze e gli spazi di manovra fra i vari stati.
La logica di fondo resta alla fine sempre nazionale, prendere coscienza di questo dato non significa essere contro l’Europa o avallare discorsi populisti (termine questo tanto generico quanto rozzo e ideologico) ma smascherare una narrazione funzionale più che agli interessi del paese a una classe politica, profondamente debole almeno negli ultimi vent’anni, i cui limiti culturali, strategici e di visione del ruolo dell’Italia risultano sotto gli occhi di tutti. Visione che altri grandi paesi come la Germania e la Francia non hanno mai cessato di perseguire sfruttando tutto quanto l’Unione poteva loro dare».
Lei parla di “limiti culturali, strategici e di visione del ruolo dell’Italia” della classe politica odierna…
«Sì, il ruolo dell’Italia all’interno dell’Unione Europea appare sempre più marginale, certo per dinamiche che sfuggono al suo controllo ma pure per una debolezza propria, che in questi anni si è manifestata nell’assenza di una classe dirigente in grado di sviluppare ai tavoli europei una pratica tattica adeguata ai bisogni del paese e la formazione di radici europee stabili. Niente di paragonabile ai Martino e ai De Gasperi portatori di tradizioni politiche forti: quelle stesse tradizioni liberali, cattoliche o socialdemocratiche che, non a caso, paesi come la Germania non hanno mai pensato di sacrificare come noi per rincorrere una modernità tanto vuota quanto teatrale: il fatto che le due figure politiche maggiori che ha espresso l’Italia negli ultimi anni provengano dallo spettacolo dovrà per forza avere un significato».
Quali “spazi di manovra” hanno Messina la Sicilia all’interno dei nuovi orizzonti tracciati dalla crisi?
«Allora, mi pare sia necessario recuperare le tradizioni e anche utilizzare le cose che abbiamo e non sono riproducibili; per esempio in Sicilia la bellezza. Sebbene la nostra Isola sia una periferia “periferica” può fare appello a risorse uniche di cultura, a un patrimonio artistico (che rappresenta circa un quinto di quello italiano) e naturalistico che vanno valorizzati e sfruttati in maniera intelligente e innovativa, specialmente dopo che la pandemia pare sul punto di cambiare i classici modi di accesso a questi beni tanto preziosi.
Insieme a questo si dovrebbe puntare sulla valorizzazione di tanti nostri prodotti agricoli eccezionali, che in previsione di un’attenzione sempre maggiore all’ambiente e alla sostenibilità possono avere prospettive di mercato non indifferenti. Occorre poi investire nella formazione e nella ricerca, permettendo anche al nostro sistema universitario di non sentirsi doppiamente figlio di un dio minore: periferico geograficamente e non considerato possibile fattore di sviluppo tecnologico ed umanistico ma solo elargitore di diplomi e lauree tanto desiderate quanto inutili per una generazione di giovani, cui il rischio di essere espulsi dalla storia per un tempo indefinito appare ancora più concreto, ancora più reale».
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