A 30 anni di distanza dalla caduta del Muro, parliamo del simbolo della cortina di ferro con Gianluca Miglino, ricercatore e docente di Letteratura Tedesca II al Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina. «Ho abitato in un appartamento dell’ex Berlino est nel 1994. La famiglia che mi ha affittato l’appartamento dove aveva vissuto, fino a cinque anni prima, in un’altra dimensione storica, sociale, culturale, oltre la cortina di ferro». Se vi capita di andare a Berlino per la prima volta vi chiederete: a Berlino che giorno è?
Prof. cosa l’ha avvicinata al mondo germanico?
«Sostanzialmente due elementi, uno biografico, l’altro culturale. Mia madre è tedesca (una classica storia di emigrazione e rientro in Italia da parte di mio padre, proveniente da una zona rurale del sud Italia), ma io non ho avuto modo di avvicinarmi più di tanto a questo mondo materno durante la mia infanzia (ho studiato il tedesco solo all’università). Si trattava quindi per me, più che di scoprire, di inventare parte delle mie origini. Il secondo elemento, che, almeno a livello conscio, per me ha pesato di più, è stata la scoperta della cultura filosofica, letteraria e musicale tedesca durante gli anni del liceo. Indeciso se proseguire gli studi in ambito filosofico o no, ho optato per la letteratura tedesca, scelta che mi ha permesso di tenere uniti i miei interessi e le mie curiosità intellettuali. L’aspetto storico, cioè, l’interesse per la storia tedesca del Novecento, è venuto dopo».
Cosa le interessa di questa cultura?
«Indubbiamente il fatto che si tratta di una tradizione culturale cruciale per comprendere le contraddizioni del nostro tempo, oltre al fatto che ci si trova di fronte ad un’avventura intellettuale ed artistica estremamente complessa, la cui comprensione è possibile solo attraverso studi rigorosi e specialistici. Non va inoltre dimenticato che, negli anni Sessanta e Settanta, la ricezione in Italia della cultura, della filosofia e della letteratura tedesche è stata fondamentale per gli intellettuali italiani e che quindi io, come altri germanisti della mia generazione, mi sono trovato, attraverso questo prisma, anche a potermi confrontare con le vicende culturali italiane».
Immagino sia stato a Berlino, che sensazione ha provato?
«Qui la storia potrebbe diventare molto, troppo lunga, per cui scelgo di essere telegrafico. A Berlino sono stato la prima volta nel 1994. Per un mese, da solo. Si è trattato di un’esperienza radicale. Nonostante i miei studi (mi ero appena laureato), i miei reali interessi non si erano mai concentrati, sino ad allora, sulla letteratura e sulla storia tedesche recenti. L’impatto è stato quindi relativamente poco condizionato dalla mia formazione, è stato in un certo senso più “puro”. Ho abitato in un appartamento dell’ex Berlino est. Pur non avendo termini di paragone personali, credo che Berlino est, nel 1994, cinque anni dopo la caduta del muro, fosse cambiata pochissimo. Pochi negozi, nessun locale, palazzi cadenti (il mio, pur essendo un vecchio e dignitosissimo edificio dell’inizio del Novecento, nella classica architettura dei quartieri operai di Prenzlauer Berg – oggi quartiere radical-chic di Berlino – era privo di riscaldamenti, esisteva solo una gigantesca e meravigliosa stufa in ceramica, il carbone andava prelevato in cantina con il secchio e, abitando al quarto piano senza ascensore, ho trascorso un mese – novembre – senza riscaldamento). La famiglia che mi ha affittato l’appartamento era originaria di Berlino est, aveva cioè vissuto, fino a cinque anni prima, in un’altra dimensione storica, sociale, culturale, oltre la cortina di ferro. Conoscerla e poter discutere con loro, sentire i loro racconti, i loro bilanci, è stata per me una grande fortuna. La città era un cantiere in fermento (non solo in senso materiale). Una vita culturale brulicante, letteralmente raddoppiata (vi erano due città, due mondi, con le relative istituzioni culturali, dall’opera ai teatri alle biblioteche etc., che sono state volontariamente mantenute attive sino ad oggi). Iniziava a nascere la Berlino che conosciamo, con tutta la spontaneità, l’energia e la libertà degli inizi. Le impressioni sono state tali, che oggi ho un piccolo appartamento a Berlino. Il resto sarebbe, come detto, troppo lungo da raccontare».
Si ricorda dov’era il giorno della caduta del Muro?
«Veramente non ho un ricordo indelebile. Credo fossi semplicemente a casa, davanti alla televisione, come la maggior parte degli italiani. Ho sicuramente un grande, immenso rimpianto. Quello di non aver preso, nelle settimane seguenti, un treno o un aereo per andare a vedere di persona quello che stava succedendo, a Berlino e non solo. Avevo vent’anni, era il momento giusto, ho mancato un’occasione».
Secondo lei, cosa sarebbe successo se il Muro non fosse caduto?
«Ci vorrebbe un discreto talento romanzesco per ipotizzare questo scenario. Io credo che sia successo ciò che era inevitabile succedesse. L’alternativa sarebbe potuta essere solo uno scenario violento: una rivolta dei cittadini della DDR, o qualcosa di simile».
Perché – da professore e quindi a contatto con i più giovani – è importante raccontare questa storia?
«Per la stessa ragione per cui è fondamentale, anzi, oggi come oggi, vitale avere un rapporto critico con la storia in generale. A costo di essere frainteso, la retorica della memoria, l’invito moralistico “a non dimenticare”, non solo non mi convince per niente (e questo conta poco), ma credo stia producendo effetti opposti. Penso addirittura che questo sia il vero scopo di questa retorica, come non posso fare a meno di definirla. Non si tratta di coltivare la memoria collettiva e di usare il passato come ammonimento per il futuro, non fosse altro perché si tratta di un ragionamento troppo elementare, che di fatto non sta funzionando. Si tratta di avere un rapporto critico con la conoscenza storica. Inviterei a rileggere con attenzione – anche qui critica – la seconda considerazione inattuale di Nietzsche, oppure una delle opere teatrali del grande drammaturgo della DDR Heiner Müller, ad esempio, Germania morte a Berlino, del 1971. Ma forse sarebbe solo un granello di sabbia nel mare. Oggi c’è un deficit spaventoso di sapere storico critico. Ma credo che non sia casuale, e che non venga, per così dire, solo “dal basso”».
Secondo lei, riusciamo ad avere percezione di quello che è successo nel 1989? A livello politico, sociale, culturale considerando il modo in cui noi italiani – a distanza di 30 anni – viviamo il concetto di Europa?
«Non è facile rispondere a questa domanda. L’impressione è piuttosto negativa. La caduta del cosiddetto comunismo è un evento storico che è stato sfruttato da parte del mondo occidentale soprattutto in senso propagandistico, come fonte di autolegittimazione. Se è innegabile che quel mondo meritasse di implodere, credo sia altrettanto vero che questo evento sia stato sfruttato non per fare i conti con quanto era accaduto in Europa dal 1917 in poi, ma semplicemente per “cancellare il nemico”, per convincere tutti, Europa in testa, che il capitalismo neoliberista sia non solo il migliore dei mondi possibili, ma anche l’unico. Questo vale soprattutto in Germania. La vita, la cultura, direi l’antropologia della Germania est sono stati etichettati come frutto di una dittatura e cancellati, messi nei cassetti degli archivi. Il modo in cui anche gli italiani, 30 anni dopo, vivono il concetto di Europa dipende forse anche da questa rimozione».
L’Università di Messina farà qualcosa in occasione dell’anniversario?
«Sinceramente, non lo so. Personalmente non ho ritenuto di promuovere iniziative (cosa che ha molto a che fare col fatto che i miei interessi di ricerca non gravitano su queste tematiche). Ovviamente non sarebbe affatto un male se l’Università (gli storici, ad esempio) promuovesse qualche iniziativa di studio o di ricerca. A patto, però, di non ricadere nel meccanismo di cui sopra, cioè in un giudizio sbrigativo e autoreferenziale e, quindi, in una sostanziale rimozione».
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