I bicchieri e le bottiglie di prosecco sul tavolino, rigorosamente vuoti, sapevano di chiacchiere tra amici. Del resto è Natale. Erano ritornati nella loro città di origine, per le vacanze, dai posti più disparati, Londra, Bologna, Roma, Cremona, ognuno con le sue storie e le sue nostalgie. Io sono di un tempo in cui era raro andare via, poi, lentamente, il benessere ha fatto spazio al bisogno, prima di una realizzazione, poi di guadagnare e la gente ha ricominciato a migrare. Chi, sradicato dalle proprie origini, vive in una città diversa, porta con sé, la propria storia, che si alimenta, ogni breve ritorno, con fotografie della propria città, mentre, noi che restiamo, ne viviamo l’inconsapevole film. Le loro istantanee sono fatte con quel bisogno di familiarità perduto nelle strade di città sconosciute, ma i luoghi e gli sguardi, nella memoria, cambiano inesorabilmente.
E così, un po’ alla volta, le città sconosciute diventano più conosciute e i luoghi della nostra giovinezza spariscono, lasciandoli in un limbo di identità in cui il quotidiano prende il sopravvento.
La nostalgia, il dolore sordo della rilettura dei propri ricordi, del proprio essere che muta, che si allontana da quel se stesso che era, troppo rapidamente.
Ti adatti alla diversa società, in cui vivi, solo cambiando e questo un po’ ti fa perdere coscienza di te.
Gli Ulisse dei nostri giorni, sanno che non sarà facile tornare ad Itaca, li salva internet e la globalizzazione.
Resta vivo solo chi ama perdersi nelle scoperte di luoghi e persone e può e sa governare il ritmo dei ritorni.
Oramai, era troppo tardi per una cena e presto per dormire. All’unisono si optò per “due spaghettini leggeri”. In realtà una cena a casa, fatta di formaggi, salumi, spaghetti, dolci e vino. Misi l’acqua sopra il fuoco e preparai il vassoio con formaggi salumi marmellate e mieli.
In un attimo la tavola fu imbandita. Stappai alcune bottiglie di Ruchè d.o.c. del 2008 cantina
Nel bicchiere, il vino si presenta vivace, di un rosso rubino con riflessi violacei. I profumi vanno da quelli tipici di un’ eccelso passaggio in legno, leggermente vanigliati, ad alcuni fiori come la rosa e la viola, a frutti rossi, in particolare mora e lampone. Poi il vino si piega al suo vitigno in una nota speziata caratteristica: pepe nero per lo più Tellicherry, ma anche il pepe verde vanigliato del Borneo.
Aspettai un po’, con il vino nel bicchiere, mentre i miei amici facevano incetta di salumi, formaggi e vino, mentre condivo la pasta con aglio, olio, peperoncino, alcuni pezzetti di pachino secco e prezzemolo.
Si affacciò in cucina una mia amica, una buongustaia, e si complimentò per la scelta del vino, l’abbinamento coi formaggi era risultato eccellente, io non risposi, nascondendomi dietro un sorriso compiaciuto, dando l’impressione di sapere il fatto mio, ma il risultato era figlio della mia fiducia nel mio amico enotecario ma, soprattutto, di fortuna perché neanche lui sapeva con cosa lo avrei abbinato.
Il primo era servito. Assaggiai il vino. La morbidezza della malolattica lo rendeva eccellente, spezie anche nel gusto, insieme a tannini rotondi e una lunga persistenza, ma quello che mi fece riconoscere il territorio fu la sensazione di mineralità cristallina, pulita, tutta astigiana.
Gli Incognito cominciarono “Parisienne girl”.
Guardavo i miei amici, acquietati da cibo e dal vino, ma soprattutto dai racconti, nuovi e antichi che si intrecciavano nei giochi delle nostalgie e delle speranze.
Quando andarono via, uscii in giardino a perdermi negli anni luce delle distanze stellari, pensando a mio figlio che passava il suo Natale lontano, e alla diversa declinazione della nostalgia: la lieve tristezza del non aver accanto chi vuoi bene e che, forse, nella sua accezione più profonda, ne era la vera essenza.
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