La Vittoria di ogni giorno (il grest)

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la_vittoria_di_ogni_giornoCome se la vita di una moglie-mamma-libera professionista-casalinga schiava del marito, dei figli, del dominus dello studio e della propria casa non fosse già abbastanza incasinata, nel mese di luglio accade quella che definirei una tragedia paragonabile ad una delle sette piaghe d’egitto: la fine dell’anno scolastico.

Così, se fino al 30 di giugno la mia vita è perfettamente organizzata tra mattine e pomeriggi durante i quali ogni singolo minuto è una nota che si fonde in armonica sinfonia con persone (maestremisterallenatoriistruttrici),eventi (partitedicalcettoduellidischermasaggididanzaefestevarie) e luoghi (scuolaludotecasalepalestreecortili), il primo luglio è come se mi ritrovassi improvvisamente in una enorme babele invasa dal caos primordiale degli istinti, dove tutti sono alla disperata ricerca di qualcuno che possa accudire i loro figli, cucinare per il loro marito, pulire la loro casa, lavorare al loro posto, parlare con i loro clienti, spiegare alla loro madre che le ferie dopo gli anni ’90 sono solo ad agosto se tutto va bene e non sono pagate.

Grazie a Santa Rita, invocata da noi genitori impazziti, l’istituto frequentato durante l’inverno, anche quest’anno ha deciso di organizzare una sorta di corso estivo di divertimento, per l’appunto, il grest.

Non essendo ben inserita in alcune dinamiche, prima della nascita dei miei figli non avevo idea di cosa si trattasse. Adesso, invece, mi è tutto chiaro.

Grest è acronimo di grande ruberia (per i genitori) e stressantissimo tormento (per i bambini).

Ed invero, il grest costa esattamente il doppio dell’asilo ed in più, non comprende il servizio di mensa e ludoteca per il pomeriggio per cui alle 13 precise, pena il supermegacazziatone, devo essere presente al portone d’ingresso della scuola.

Per di più mentre l’asilo consente ai genitori di accompagnare i bambini anche alle 8 meno un quarto, il grest comincia tassativamente non prima delle 8 e 30.

Adesso il quadro è chiaro.

La mia giornata comincia intorno alle 5 per cui ho ben tre ore e mezza per accompagnare i bambini a scuola. Ovviamente, non mi va proprio di sprecare minuti preziosi, per cui, faccio andare la lavatrice di notte e di mattina stendo, lascio andare la lavastoviglie di notte e la mattina sistemo, finalmente riesco pure a truccarmi invece di affondare la faccia nel pennellone della terra e pettinarmi invece di uscire con la bava di Betty sui capelli al posto del gel.

Alle 8 e 30, puntuale, lascio i bambini alla suora che continua a chiamare mia figlia Beatrice, nome che certamente adoro, per ragioni che non sto qui a spiegare, ma che ovviamente Betty non riconosce come il suo, per cui inizia a piangere dicendo che non vuole stare in un posto dove nessuno la chiama con il suo nome vero.

A quel punto parte a ruota Francesco, che di stare seduto nella panchina in attesa che le maestre lo coinvolgano in mille attività diverse non ha proprio voglia e dice le seguenti parole “non mi piace questo grest, sono sempre in mezzo a gente che non conosco e nessuno mi lascia in pace! Io non voglio fare niente!”.

Mi siedo accanto a loro, provo a spiegare che se non mi fanno andare al lavoro non avrò più soldi per comprare loro giocattoli, mi sembra un argomento convincente. Ma, Francesco, tira fuori la storia che ogni volta che sceglie un gioco gli dico che costa troppo, per cui mi rimprovera di non avere, in ogni caso, denaro sufficiente per soddisfare i suoi desideri. Passo al secondo argomento e dico loro che se non mi fanno andare al lavoro l’avvocato mi picchierà fortemente. Betty sembra traumatizzata ma Francesco non si beve neanche questa e mi dice con candore che se qualcuno mi picchiasse, io, certamente, lo sbranerei. Ok e siamo al terzo argomento. Decido di essere sincera. Dico che anche io sono costretta a stare insieme a gente che non conosco e che non mi lascia in pace e mi costringe a fare cose che non mi interessano, che non mi piacciono e che non mi divertono, dico che anche io voglio stare con loro e che l’unico pensiero che mi consente di affrontare la mattinata è che prima di pranzo posso riabbracciarli. Lo dico mentre piango, vorrei portarmeli via, vorrei andarmene al mare con loro, vederli giocare, abbracciarsi, ballare, ridere, litigare.

Inizio ad astrarmi dal contesto interrogandomi effettivamente sul perché io debba andare al lavoro, con questo caldo, vestita come un boero, mentre stille di sudore grondano sulla schiena e sul viso.

Ho i piedi pieni di vesciche, hanno perso la sensibilità infagottati come sono dentro tigliosi sandali in cuoio; li guardo, sono blu, gonfi, sembrano due orate al cartoccio, pronte per essere cucinate ancora agonizzanti.

Adesso sono i bambini a consolarmi, mentre io seduta sulla panchina mi lascio andare ad uno sfogo di disperazione per l’aspetto delle mie estremità. Ma loro mi baciano velocemente e mi dicono “mamma dai! In fondo ci vediamo tra due ore” e mi liquidano.

Scappo in studio dove una collega magra, giovane, con gli occhi esageratamente grandi e i denti eccessivamente bianchi, mi mostra, non so bene per quale ragione, le foto di suo fratello venticinquenne muscoloso e insopportabilmente bello, ingenerando in me una confusione ormonale ingiustificata in considerazione della mia età e dei miei numerosi impegni e compromettendo inevitabilmente la stesura della conclusionale in scadenza che devo ultimare prima dell’udienza ad horas delle 12.

Alle 11 e 30 mi allontano furtivamente dalla stanza dello studio comunicante con la megasalariunioni del boss e con la stanza di quest’ultimo, nel tentativo si sottrarmi a qualche responsabilità rimossa e/o dimenticata.

Non ci riesco e vengo convocata d’urgenza a colloquio.

Dopo dieci minuti di improperi faccio presente che, seppure mi risulta piacevole e rilassante ascoltare le adulatorie opinioni serenamente esposte dal capo nei miei confronti (distrattaconfusionariasbadatadisattentaimpreparata e chi più ne ha più ne metta) alle 12 devo intervenire ad una prova testi al tribunale lavoro.

Faccio presente la circostanza di non avere a disposizione un’auto per raggiungere il summenzionato luogo, rilevo che la temperatura odierna sfiora i 40° e che invece 60 sono i gradi della pendenza in salita dell’ultimo tratto di strada da percorrere prima di arrivare alla meta.

Così fuggo ululando come una sirena dei vigili del fuoco e mi accingo ad affrontare la mia prova.

Alle 12 sono trasfigurata, i capelli si sono increspati, il trucco è sbavato, la camicia letteralmente bagnata comunica alla giacca di evacuare ed i piedi? I miei piedini necrotici? Boh…devo averli persi lungo la salita!

Cerco di ricompormi ma, ovviamente, sono in ritardo, per cui entro in aula velocemente e scopro con piacere che il condizionatore è guasto, proprio come nella mia stanza in studio. Inizio a prefigurarmi si tratti di un’alleanza contro le mie ricorrenti tonsilliti.

Parlo con il giudice, espongo, deduco, mi riporto, sottolineo, reitero, eccepisco, controdeduco, rilevo, sostengo e concludo.

A questo punto le pupille si impressionano dell’inattesa reazione di controparte che identifico in emissione brusca, dalla bocca, di aria proveniente dallo stomaco.

Il gesto è soffocato. Osservo insospettita il collega e penso quanto sarebbe bello se ogni tanto anche io mi lasciassi andare a certe esternazioni, metaforicamente dico, un gesto di dissenso e menefreghismo nei confronti di quegli aspetti dell’esistenza così dannatamente pesanti e rigorosi ed assillanti e devastanti.

Un gesto liberatorio ma allo stesso tempo chiaro, inequivocabile, decisivo ed incisivo.

Rido, rido, rido.

Una risata irrefrenabile e liberatoria.

Quest’uomo mi ha cambiato la vita e mi ha portato anche fortuna perché il teste non si è presentato e posso finalmente andare a prendere i miei figli al grest senza temere per l’ennesimo rimprovero circa il mio perenne ritardo, correndo ,questa volta in discesa, verso la felicità.

Vittoria Gangemi

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