Noi nati alla fine degli anni ’70 abbiamo vissuto a cavallo tra due ere tecnologiche: dal commodore 64 al touch screen.
A volte mi sembra di esistere in una dimensione spazio-temporale indefinita, risiedendo combattuta tra il magnetismo sprigionato dai continui progressi della tecnica e la mia totale mancanza di fiducia negli stessi.
Sì, perché per me alcune rivoluzionarie innovazioni rimangono un fenomeno sconosciuto, un enorme buco nero all’interno della mia mente in cui byte, megabyte e gigabyte si prendono a braccetto con la matematica, il terzo libro del Mandrioli sul processo esecutivo e Marzo 1821, facendosi compagnia e tentando a volte di interloquire con qualcuno dei pochi neuroni funzionanti del mio cervello, il quale abilitato a proteggermi, presumo li prenda a pugni e li ricacci lì da dove sono arrivati.
Purtroppo i miei limiti si scontrano, tuttavia, con la realtà del tempo in cui vivo.
Così, mi sono dovuta adeguare all’invio telematico di atti giudiziari, sovvertendo il ritmo delle scadenze. Cosicché, se un atto deve essere depositato a Natale lo predispongo al rientro delle ferie estive, temendo l’intasamento, per aggiornamenti, del cliens redigo.
Ciò mi ha privato della possibilità di litigare con i cancellieri per farmi apporre alla scadenza “dell’ultimominutodell’ultimaoradell’ltimo
giorno” il caro vecchio timbro consumato di “depositato il…”.
Mi sono adeguata allo “smatphonedualsimfullactiveandroidohyesyes
comenodomanineriparliamo” anche se, di tutte le supermegaiperultra funzioni avveniristiche di cui è dotato, riesco solo ad utilizzare la rubrica e la fotocamera e, ammetto, non senza difficoltà.
Per far ciò, ho dovuto abbandonare il mio caro vecchio Nokia 3310 rispetto al quale era, sì, imposto un colore orrendo, era, sì, imposto l’operatore telefonico, era, sì, imposta la prepagata, ma almeno aveva una rubrica a cui si accedeva con una facilità imbarazzante ed invece di chattare si preferiva una bella chiacchierata.
Mi sono adeguata al wi-fi, scroccando connessioni a chicchessia anche quando oltrepasso il limite di seimila ore al mese di navigazione gratuita.
Ciò mi ha consentito, tra un’attrazione e l’altra ad Eurodisney, di rimanere in contatto con il boss ed i clienti tramite whatsApp e di conoscere tutte le imperdonabili disattenzioni che avevo commesso pur non essendo presente in studio.
L’unica cosa a cui non riesco ad adeguarmi è il navigatore satellitare nell’auto della mia migliore amica.
Francesca, questo è il nome della mia sorella acquisita, ha da poco acquistato un’auto dotata di un sistema innovativo di ‘GPSocomecavolosichiamalui’.
Ora, secondo me questo sistema ‘GPSocomecavolosichiamalui’ ha ben poco a che fare con la tecnologia perché sono convinta che in realtà dentro l’auto, sotto qualche tappetino ovvero nel portabagagli o forse all’interno dei sedili di dietro o, ancora, perché no, dentro il motore, viva una tizia di piccole dimensioni (non so sarà alta quanto me o giù di lì) che la notte si è attrezzata per vivere nel garage con qualche coperta ed una lavatrice e di giorno salta sull’auto della Franca.
Questa tizia, presumibilmente di origini ungheresi, colloquia con un chiaro accento magiàro (tipica inflessione appartenente al ceppo ugro-finnico) con chiunque salga in auto anche prima di aver messo in moto.
Dice: “Buongiorno! Oggi-dove-si-va? Gira-a-destra-gira-a-sinistra-c’è-un-semaforo-è-tempo-di-infilare-il-dito-nel-naso-apri-il-finestrino-la-temperatura-è-di-28-gradi-all’-ombra-nel-sedile-di-dietro-hai-posizionato-la-borsa-accanto-a-te-c’è-una-persona-isterica (e sono io quella!!!)-frena-accelera-guarda-quel-figo-sul-marciapiede”.
Tuttavia, la sua frase preferita è “ricalcolo!”.
Cosa dovrà ricalcolare ce lo si chiede ogni 5 o 6 minuti non appena si svolta verso la destinazione da raggiungere?
Non so perché nella vita mi sono spesso legata a persone dal temperamento completamente diverso dal mio. Certamente Francesca è tra loro.
Così mentre io, ogni volta che salgo sull’auto, immagino un modo per seviziare l’ungherese, lei la ascolta divertita, quasi grata di questa voce fuori campo che le impedisce di ascoltare le mie confidenze.
Ho provato ad intavolare una vera e propria disquisizione con Francesca, argomentando sull’esiguità del tempo che possiamo trascorrere piacevolmente insieme, sulla nostalgia che provo nel non poter più occupare anche solo 5 minuti in sua compagnia, sull’inutilità di offrirmi passaggi allo studio che si trova a distanza di 30 metri dalla scuola dei bambini e sull’opportunità magari di telefonarci o prenderci un caffè insieme evitandomi l’enorme stress di ascoltare quella maledetta.
Ma Francesca non mi ascolta, anzi mi zittisce, dice che creo confusione (io?), che non la faccio concentrare e che sono un elemento di disturbo.
Io, dalla mia, urlo, alzo il volume della radio, sbuffo, mi lamento e incrocio le braccia con un broncio degno della migliore performance di mia figlia.
Francesca mi guarda, spegne la radio e mi rimprovera compostamente, lei fa tutto compostamente purtroppo, con un secco <<TACI>>.
Ah si? Ok è tutto chiaro. Scatta l’immediata reazione matura da quarantenne.
“L’ho capito sai? Dico l’ho capito che tu vuoi più bene a questa IlonaJùliaKlàraMargitRózsaZsófiaZsuzsanna o come si chiama lei!” e continuo singhiozzando: “Ma come puoi? dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme e che viviamo quotidianamente? Non ricordi quando al liceo avevi bisogno di qualcuno che ti fermasse i lacci delle tod’s (lunghi circa 7 metri nds) ad ognuno dei ganci allineati nelle polacche fin sulle cosce? E non ricordi quando tuo fratello entrò nel bagno mentre ero seduta sul water con indosso l’accappatoio, il casco integrale e gli stivali antipioggia e brandendo l’aspirapolvere urlò “arriva la Zucchet!”? E non ricordi quando mi costringesti ad ascoltare Grignani un intero pomeriggio perché ti ricordava un vecchio amore? E non ricordi quando mi lasciai con “nonmiricordoneppurechi” e mi portasti al bowling costringendomi a scegliere come nome nel torneo Samantha con l’H e continuasti a ridere tutta la sera per come mi calzavano le scarpette, arrestando la tua ilarità solo quando ti feci credere di avere l’handicap certificato di un’elefantiasi alle gambe? E non ricordi quando, solo perché mi pregasti, provai i jeans El Charro smessi di tuo cugino e sembravo un nano da circo? E non ricordi quando tua sorella cercava di rimettermi a posto il mio unico dente storto spingendolo con una tale forza da farmi male alla gengiva? E non ricordi quando abbattei il pedalino del tuo Peugeottino perché non riuscivo ad arrampicarmi sul sellino per via dei jeans troppo stretti?
Insomma tutte queste esperienze le hai vissute con la tua ‘ungheresinadelpiffero’?”.
Sono sudata, gesticolo infervorata, neanche mi accorgo che Francesca ha parcheggiato, l’ungherese finalmente sembra morta. Esistono solo i nostri sorrisi imperfetti.
Ti guardo, amica di sempre, e penso che davvero sei la forma di amore più pura insieme a quell’altra folle del nostro trio di cui un altro giorno racconterò.
Sto per abbracciarti, lo capisci e ti sporgi verso di me. Grazie amica, non mi abbracci mai. “Non ti sto abbracciando” – dici seria mentre mi apri la portiera dall’interno dell’auto. – “Sei arrivata. Ciao”.
Maledetta ungherese, me la pagherai.
Vittoria Gangemi
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