Ultimamente siamo tutti un po’ più messinesi. Da qualche tempo a questa parte infatti, lo spirito di appartenenza alla nostra città sembra aver subito un’impennata. Fatto strano che non sia dovuto al calcio: ciò infatti non accadeva dai tempi della serie A, periodo in cui ci si sentiva messinesi fino a Trapani e anche i parenti emigrati nel Canton Ticino cantavano mi sbigghiai ch’era viatu.
Oggi è diverso, la messinesità serpeggiante, l’emergere di un orgoglio sopito, sembrano spontaneamente prodotti. La rivoluzione accorintiana ha sicuramente dato un input non indifferente: movimento popolare, magliettine colorate, amore e lacrime per la nostra terra stuprata da personaggi incravattati con occhialini sul naso e mogli griffate. Insomma, con Renato o contro Renato, nel basso ci siamo tutti e tutti siamo stati chiamati in causa.
Ma da parecchi mesi assistiamo al fiorire di fenomeni sociali e culturali che fanno della nostra città oggetto di attenzione e interesse: rapper, blogger, fumettisti, teorici, gente comune, tutti a costruire e pontificare sulla messinesità. Ho sentito la parola buddaci negli ultimi mesi, più che al Granillo durante i derby. Buddaci orgogliosi di esserlo, ecco cosa siamo, finalmente. E abbiamo dei valori, sacrosanti e imprescindibili. il nostro totem è l’arancino, veneriamo la granita ( a menza ca panna) tiriamo fuori lo smanicato al primo raggio di sole, intercaliamo espressioni dialettali anche quando chiediamo l’aumento del fido in banca, ci accomodiamo sulle panchine a fissare le marmoree natiche di Nettuno. E questo movimento dell’anima coinvolge persino gli ambienti della Messina bene che io naturalmente frequento assiduamente: cenacoli intellettuali con apericene servite da manovalanza di matrice decisamente poco peloritana, che abbandona la nouvelle cuisine o il finger food d’importazione, per pesce stocco a ghiotta e parmigiana, sintomo di un ritorno all’amore per la madre terra, di un buddacesimo molto, ma molto chic.
Tutto ciò che faceva inorridire fino a qualche anno fa, adesso è motivo di vanto, anche in questi ambienti. Ho visto professionisti, primari, funzionari, uomini di legge insegnare ai figli le espressioni dialettali come tempo addietro si spiegava il latino: addamanera, bella di papà, con la lingua sul palato. Perché anche le nuove generazioni sono cambiate. Quando, solo pochi anni fa, ero una giovane noiosa studentessa piena di speranze, volevo sentirmi cittadina del mondo, almeno un po’ europea, magari anche solo italiana; ci si dava un tono importando modelli culturali e imitando gli studenti di altre città. Adesso, il modello culturale di riferimento giovanile è nostrano: basato sul pilone, la “discesa” a piazza Cairoli – neanche fosse sotterranea – focaccia con o senza acciughe. Anche i ragazzi prodigio con cognomi altisonanti (figli dell’intelligentia cittadina) fuori dai licei classici, con i loro vocabolari di greco e latino, si congedano a colpi di compare stasira ni pigghiamu na menza bira.
Siamo approdati a una nuova presa di coscienza: messinesi e fieri, pur con i nostri difetti. Gran parte del merito spetta a Facebook che diffonde sentimenti contagiosi. I mea culpa delle nostre peculiarità fioccano, quasi a diventare una catarsi, una liberazione. Siamo incivili. Parcheggiamo in doppia fila. Non accettiamo i cambiamenti. Non siamo europei. Siamo tutti chiacchiere e aperitivo. Un vero e proprio coming out di difetti, colpe ataviche, pessime abitudini, come se davvero il primo passo fosse ammettere di avere un problema. Il secondo passo, a dire il vero, non c’è. La presa di coscienza è in atto, ma si ferma lì. Perché la nostra indolenza, la nostra pigrizia, la nostra mancanza di valia, sono tratti caratteristici di una messinesità cercata e ritrovata. Probabilmente da Famulari.
Giusy Pitrone
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