Non credo che riuscirò mai ad abituarmi ai social, o meglio, all’uso che se ne fa. Parlo di Facebook ovviamente, poiché gli altri termini complicati hanno la stessa capacità della formazione dell’Atalanta di fissarsi nella mia mente. Il cuttigghio virtuale mi affascina parecchio, ammetto, anzi, di essere tanto avvezza da poter ricostruire il curriculum vitae di chiunque abbia un profilo Facebook con un paio di cliccate sapienti e strategiche. Ecco a cosa serve, questo è l’uso sociale dei social network: creare dei veri e propri dossier, ad esempio, delle ex del proprio compagno o delle attuali compagne dei nostri ex e magari catalogarli in base a rughe o cuscinetti di adipe.
Comprendo l’esibizionismo. Ci si selfa un po’ tutti, belli e brutti, soprattutto dopo aver fatto un centinaio di scatti analizzati e controllati da amiche, sorelle, estetiste e agenti del RIS. Ci si selfa anche parti del corpo: i piedi prima di tutto, più che altro per ragioni logistiche, data la difficoltà a fotografarsi i gomiti o le scapole. C’è tutta una tecnica poi, del selfie. Bisogna trovare l’angolazione giusta. Se ti fotografi dal basso verso l’alto inevitabilmente sembrerai uno dei barbapapà, al contrario potresti essere scambiato per un esemplare alieno chiuso nell’area 51. Il segreto è quello di mantenere un’espressione molto naturale, come se si stesse controllando lo stato di crescita della peluria sul labbro superiore. In realtà il modo migliore di selfarsi è fotografare lo specchio. Anche qui però bisogna fare la massima attenzione a ciò che sta dietro di noi. Non dimentichiamo di occultare i microclismi di glicerina in bella vista o il talco antiodori per i piedi, piuttosto che la biancheria sporca da infilare nella lavatrice.
Ma finché si parla di esibizionismo, tutto bene. Entriamo, però, nel mondo dell’incomprensibile quando gli scatti riguardano il cibo. Sarei in grado di ricreare il menù settimanale di molti dei miei contatti. Più volte sono stata tentata di rimproverare alcuni di loro perché i legumi sono importanti e vanno mangiati più volte durante la settimana. Perché il consumo della carne rossa va limitato. Colta dall’invidia per le esibizioni culinarie, ho provato a postare le foto della mia cena a base di bastoncini di pesce arrostiti e finocchio scondito, ma non ho avuto grande successo. Perché il problema è proprio il feedback: non basta mostrare e mostrarsi, se non si riceve un congruo numero di approvazioni, la condivisione è un flop.
Quello che tuttavia ha dell’incomprensibile è la sistematica, costante abitudine dei facebookiani di avvertire la piazza virtuale circa i fenomeni meteorologici. Certo, il dott. Mussillo offre un servizio a carattere umanitario e filantropico: lui ci invita ad avere cautela, sempre. Ci tiene all’erta e ci avverte di non sostare in spiaggia durante un temporale. Cosa che naturalmente faremmo tutti, se solo lui non ci suggerisse di evitare. Ma a parte la funzione sociale di Mussillo, che è un esperto e fa questo mestiere, perché il popolo di Facebook sente la necessità di scrivere piove, quando piove, c’è il sole quando c’è il sole, fa freddo e così via? È un servizio a tutela della biancheria stesa? O uno di quei giochi, come quello del colore del reggiseno, in cui devi scrivere cose strane per la lotta contro tutte le celluliti o altre catastrofi? Ho iniziato a credere che qualcuno dei contatti dei questi novelli meteorologi abitasse in un sotterraneo o in un bunker privo di finestre.
Poi ci sono i terremoti. Dato che Messina non è situata fra le ridenti montagne della Valle D’Aosta, e considerati anche i precedenti, è piuttosto naturale un’attività sismica. Ma del terremoto, quando è importante, ti accorgi pure se stai in una stanza senza sbocchi,insonorizzata o tappezzata di sughero a registrare un disco. Quindi non comprendo per quale motivo, le stesse persone che informano sulla grandine o sullo scirocco, avvertano la popolazione anche del terremoto,in tempo reale, fra l’altro, h24. Quando a dicembre siamo stati shakerati in piena notte, Facebook si scatenò. La scossa non era ancora finita che la gente scriveva. Come se il primo pensiero fosse quello di aprire Facebook e non quello di togliersi il pigiama macchiato di caffè per una mise più presentabile, o di telefonare alla nonna cardiopatica.
Resta aperto l’interrogativo amletico se in realtà tutto ciò nasca dalla necessità di condividere, o di avere testimoni di un determinato evento, come se le cose succedessero davvero solo quando le piazziamo sui social. Che lo sappiano tutti che abbiamo cambiato rossetto e che abbiamo preparato il pescestocco a ghiotta. Nonostante le sciroccate, mareggiate e cataclismi.
Giusy Pitrone
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