Di seguito riportiamo il resoconto della Giunta per le autorizzazioni che ieri ha discusso il caso del parlamentare Pd, Francantonio Genovese, in merito alla richiesta di arresto inoltrata dalla Procura di Messina.
CAMERA DEI DEPUTATI
Giovedì 10 aprile 2014
215.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Giunta per le autorizzazioni
COMUNICATO
AUTORIZZAZIONI AD ACTA.
Giovedì 10 aprile 2014 – Presidenza del presidente Ignazio LA RUSSA.
La seduta comincia alle 10.45.
6). Domanda di autorizzazione ad eseguire la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del deputato Francantonio Genovese (doc. IV, n. 6)
(Esame e rinvio).
Ignazio LA RUSSA, presidente, ricorda che l’ordine del giorno reca l’esame di una domanda di autorizzazione ad eseguire la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del deputato Francantonio Genovese. La richiesta è stata inoltrata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina. Ad essa è allegata ampia documentazione che è a disposizione dei colleghi per la consultazione, nel rispetto del regime di riservatezza degli atti processuali.
Avverte, inoltre, che il deputato Genovese, nella giornata di giovedì 3 aprile scorso, ha trasmesso una memoria corredata da numerosi allegati, che è stata immediatamente messa a disposizione dei colleghi. Nella giornata di mercoledì 9 aprile, egli ha inoltre presentato una ulteriore memoria con allegati, che è stata anch’essa messa a disposizione dei colleghi.
L’onorevole Genovese, ritualmente convocato, ha fatto sapere che intende altresì avvalersi della facoltà di essere ascoltato dalla Giunta per fornire ulteriori chiarimenti.
Ricorda che, nella riunione del 2 aprile scorso, l’Ufficio di Presidenza ha concordato sul fatto che nella seduta odierna, oltre alla relazione dell’onorevole Leone, si procederà all’audizione del deputato Genovese e, ove vi siano richieste in tal senso, agli interventi dei colleghi.
Dà quindi la parola al relatore, onorevole Leone.
Antonio LEONE (NCD), relatore, osserva come il procedimento derivi dalla richiesta del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina, dottor De Marco, di autorizzare l’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa nei confronti del deputato Francantonio Genovese.
140 del 2003, la In ossequio al disposto dell’articolo 68, secondo comma, della Costituzione e dell’articolo 4 della legge n. la Giunta è quindi chiamata a valutare se concedere o meno l’autorizzazione all’esecuzione di questa misura cautelare.
Preliminarmente ricorda che, in relazione al medesimo procedimento, già nel luglio del 2013 l’autorità giudiziaria ha disposto l’applicazione di misure cautelari per dieci coimputati (tra cui persone strettamente imparentate o legate all’onorevole Genovese), per i quali sono adesso venuti meno le esigenze cautelari.
Con riferimento al quadro accusatorio, fa presente come il deputato Genovese sia indagato per associazione a delinquere (416 c.p.), nonché per concorso nei reati – legati dal vincolo della continuazione – di riciclaggio (648-bis c.p.), peculato (314 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (640-bis c.p.), dichiarazioni fraudolente ed emissione di fatture per operazioni inesistenti (artt. 2 e 8 del d.lgs. 74 del 2000).
Quanto al ruolo dell’onorevole Genovese nella gestione di enti di formazione, secondo l’ipotesi accusatoria, in assenza di efficaci controlli amministrativi, alcuni enti privati – gonfiando i costi di esercizio per lo svolgimento dei corsi di formazione professionale – erano strumento per la sottrazione di fondi regionali e comunitari dalla loro destinazione.
In particolare, la gestione di due enti – ARAM e LUMEN Onlus, destinatari rispettivamente di circa 23,5 milioni di euro (per il periodo 2006-2012) e 3,5 milioni (per il periodo 2006-2011) – sarebbe stata caratterizzata dal sistematico ricorso, a costi esorbitanti, a ditte riconducibili ai medesimi amministratori degli enti per il noleggio di attrezzature, la locazione di immobili, la formazione di contratti fittizi.
Ad avviso del GIP, gli enti coinvolti sono in realtà riconducibili ad un unitario centro di interessi «individuato, in ultimo, nella persona dell’onorevole Francantonio Genovese. Infatti è costui che, nel corso del tempo – con l’evidente consapevolezza dei cospicui guadagni illeciti realizzabili e dei potenziali vantaggi probabilmente di natura elettorale – ha provveduto ad acquisire, per il tramite di una rete di complici ricavata in parte nella propria cerchia familiare, il controllo di diversi enti di formazione sparsi nella Regione Siciliana; quindi, parallelamente, a costituire una rete di società mediante le quali giustificare le appropriazioni ed attraverso le quali fare transitare i profitti illeciti».
L’impianto accusatorio ruota intorno alla sua influenza politica sull’Assessorato alla formazione, volta ad assicurare cospicue erogazioni ad enti di formazione di cui progressivamente il deputato Genovese assumeva il controllo per il tramite di terze persone (la moglie, la cognata, la sua segretaria particolare, persone a lui strettamente legate da rapporti di amicizia e lavoro, professionisti legati al suo sistema societario).
Ciò gli avrebbe quindi consentito di far stipulare agli enti contratti per beni e servizi a costi esorbitanti, ovvero consulenze o somministrazioni fittizie con società direttamente riferibili a lui ed alla sua organizzazione. Inoltre, si sarebbe giovato dell’assunzione presso un ente, a valere quindi sui fondi per la formazione, di due persone che invece prestavano servizio nella sua segreteria politica.
Con riferimento ai reati fiscali e tributari nonché alla contestazione del reato di riciclaggio, osserva come un altro filone d’inchiesta riguardi «un anomalo e vorticoso giro di fatture che ha interessato Genovese Francantonio e le società che al medesimo fanno pressoché univoco riferimento».
In particolare, nell’ordinanza si afferma che l’onorevole Genovese conferiva risorse ad una sua società come corrispettivo di operazioni in tutto o in parte non realmente effettuate, ai fini dell’abbattimento del reddito imponibile, dunque funzionali unicamente a consentire evasione fiscale e creare disponibilità per acquisti di immobili (la società Caleservice risulterebbe intestataria di circa 62 unità immobiliari, cui se ne aggiungerebbero ulteriori in conseguenza dell’incorporazione di Medioimpresa s.r.l. ed Euroedil s.r.l.).
Per quest’ultima condotta l’autorità giudiziaria formula l’ipotesi di riciclaggio, individuando in essa il tentativo consapevole di attivare un meccanismo complesso di occultamento della natura illecita del denaro conseguito.
In merito alla contestazione del reato associativo osserva che, secondo l’ordinanza, Francantonio Genovese «si colloca chiaramente al vertice del sodalizio criminale», con il ruolo di «promozione e direzione, contestualmente stratega e principale beneficiario dei proventi illeciti».
Avvalendosi di una propria struttura già esistente, avrebbe costruito una ragnatela di enti e di istituti, collocandovi al vertice familiari ed altre persone di sua fiducia, ampliando la rete degli enti di formazione controllati ed estendendo la propria influenza ai vertici delle Istituzioni, al fine di controllare le vie di accesso al finanziamento. Attraverso questa struttura complessa ha quindi tratto profitti illeciti confluiti nel suo patrimonio.
Illustra, quindi, il contenuto delle memorie difensive, iniziando da quelle prodotte nel procedimento giudiziario.
Osserva, in particolare, come in diversi passaggi l’ordinanza qualifichi come non plausibile la giustificazione recata dalla memoria difensiva depositata in procura delle fatture emesse dal deputato in termini di consulenze rese, sul presupposto che «le parti del contratto erano tutte riferibili, in maniera più o meno diretta, al medesimo Genovese». Al contrario, il giudice ritiene che tale giustificazione configurerebbe un’ammissione della sua partecipazione «quale mandante, alle singole operazioni fraudolente».
Fa presente come lo scorso 3 aprile il deputato interessato abbia trasmesso alla Giunta una nota difensiva in cui formula argomentazioni a sostegno della sua richiesta di negare l’autorizzazione ad eseguire la misura cautelare nei suoi confronti.
Sussisterebbe infatti, nei suoi confronti un fumus persecutionis desumibile da un abuso di mezzi investigativi, con acquisizione ed uso indebito delle intercettazioni delle sue conversazioni, da distorsioni macroscopiche nell’interpretazione delle norme penali sostanziali applicate – con lo scopo di costruire il reato di riciclaggio a sostegno della misura cautelare della custodia in carcere – nonché dal travisamento dei fatti risultanti dall’indagine, e dal rifiuto di approfondire o addirittura acquisire, mediante incidente probatorio, prova sugli elementi di fatto essenziali per l’integrazione delle figure di reato contestate.
Nel rinviare alla nota prodotta dall’onorevole Genovese, per ogni approfondimento, in questa sede si limita a riassumere sinteticamente gli elementi addotti a sostegno di tali affermazioni.
Quanto all’abuso dei mezzi investigativi, Genovese afferma che il sostrato indiziario che sorregge la richiesta di custodia cautelare è derivato, in via pressoché esclusiva, dall’intercettazione di conversazioni telefoniche o ambientali, anche riferite a lui stesso.
A suo avviso, le intercettazioni sono solo formalmente «indirette», ma in realtà disposte con il fine principale di captare le sue comunicazioni, in violazione dell’articolo 68, terzo comma, della Costituzione.
Tale affermazione poggia sulla seguente considerazione: «È di palmare evidenza che l’obiettivo dell’attività di indagine era (ed è) diretto verso la mia figura, quale asserito capo e promotore, secondo l’accusa, di un’associazione a delinquere composta, peraltro, da soggetti a me vicini per evidenti ed inequivocabili ragioni affettive e/o politiche».
In estrema sintesi, afferma essersi realizzata una modalità di esecuzione chiarame nte rivelatrice di un uso distorto del potere giudiziario desumibile sia dagli obiettivi dell’indagine espressi negli atti, sia dal controllo delle utenze (che è avvenuto sulla cerchia di familiari, di collaboratori, di amici più stretti ed anche su un’utenza societaria di cui aveva uso esclusivo), sia infine dal tempo di ben due anni decorso tra dalla sua prima conversazione captata all’ultima.
Sul piano più strettamente procedurale, si formulano altresì rilievi in ordine alla loro inutilizzabilità in sede processuale, ai sensi dell’articolo 270 c.p.p., in quanto assunte in altro procedimento e senza rispettare i termini di autorizzazione giudiziale.
In merito alle conversazioni intercettate, vale la pena ricordare che nella richiesta dell’organo inquirente di disporre la misura cautelare, avanzata nel dicembre 2013, si precisa invece che le intercettazioni di conversazioni telefoniche dell’onorevole Genovese sono state assunte in via «indiretta» e che sono prese in esame dalla procura esclusivamente per provare la responsabilità di terzi e l’esistenza dell’associazione a delinquere, e dunque non nei confronti del deputato Francantonio Genovese. Si preannuncia peraltro che verrà trasmessa alla Camera la richiesta di utilizzazione processuale anche nei confronti del deputato interessato.
Analoga precisazione viene svolta nell’ordinanza («nel corpo della presente ordinanza non si farà alcun uso delle intercettazioni in parola né, ovviamente, nei confronti del parlamentare né, in sostanza nei confronti dei suoi interlocutori»), unitamente all’affermazione che trattasi, in ogni caso, di conversazioni captate in via casuale («obiettivo della captazione non era, neanche in termini di mera eventualità, il deputato»).
Quanto alle distorsioni dell’interpretazione delle norme penali sostanziali applicate, il fumus persecutionis sarebbe individuabile nella scelta dell’autorità giudiziaria di formulare i reati di peculato e – soprattutto – di riciclaggio in modo artificioso e meramente funzionale all’obiettivo di pervenire a pene edittali più elevate e rendere più plausibile la misura cautelare della custodia in carcere (oltre che aumentarne i termini massimi).
5889/2014) hanno riqualificato le ipotesi dell’accusa in «truffa aggravata», negando la configurabilità del peculato. Aderendo alla tesi che la Cassazione ha già enunciato nel caso concreto, non potrebbe che sopravvivere la sola ipotesi di reato di truffa (pena edittale minima pari a 1 anno), rendendo sostanzialmente sproporzionata la misura cautelare. In questo ambito, l’onorevole Genovese ribadisce che, in relazione all’ordinanza di custodia cautelare del luglio 2013, fondata sui medesimi addebiti, prima il Tribunale della libertà e poi la stessa Corte di cassazione (VI sez. penale n.
Sul punto, nulla questio. Anche il giudice, nell’ordinanza di custodia cautelare, ha riaffermato la sua ricostruzione giuridica dell’imputazione di peculato e truffa aggravata ma ha, nel contempo, ammesso che le posizioni del Tribunale del riesame e della Corte di cassazione sono in senso opposto.
Ancora più grave – secondo l’onorevole Genovese – è la formulazione dell’addebito di riciclaggio «giuridicamente e fattualmente insostenibile», che sarebbe stato utilizzato dall’autorità giudiziaria in quanto «strategico ai fini della misura cautelare».
L’illogicità del percorso giudiziario risiederebbe nel fatto che – dopo averlo raffigurato come capo di un’associazione che ha perseguito condotte illecite – non sono a lui addebitate le principali e più gravi condotte dei reati-presupposti, proprio allo scopo di potergli contestare il reato di riciclaggio e, in ogni caso, precostituire una sorta di imputazione alternativa (riciclaggio-truffa-peculato) idonea a supportare la misura cautelare più estrema, e tale da rendere però impossibile ogni valutazione sulla «proporzionalità» della misura al fatto ed alla sanzione.
Sul punto, nell’ordinanza di custodia cautelare l’ipotesi di riciclaggio viene sostenuta in relazione al tentativo consapevole di attivare un meccanismo complesso di occultamento della natura illecita del denaro conseguito e si precisa che, quand’anche dovesse cadere per effetto del coinvolgimento diretto di Francantonio Genovese nei cosiddetti reati-presupposti «questi consentirebbero comunque l’applicazione dell’invocata misura cautelare».
Quanto all’ultimo aspetto richiamato in precedenza, la memoria difensiva lamenta il travisamento dei fatti risultanti dall’indagine, nonché il rifiuto di approfondire o addirittura acquisire – mediante incidente probatorio – prova sugli elementi di fatto essenziali per l’integrazione delle figure di reato contestate.
Tra le numerose rimostranze in ordine al corretto svolgimento della procedura di accertamento dei fatti e alla coerenza delle conclusioni cui l’indagine è giunta – che egli ritiene essere frutto di un atteggiamento non imparziale del giudice (forse anche dovute a ragioni private emerse in taluni articoli di stampa) – si possono richiamare: le considerazioni sull’irrilevanza penale della contestazione di costituire una rete di società cui gli enti di formazione ricorrevano per beni e servizi (la memoria difensiva – ricordando i tempi ritardati con cui la regione eroga i fondi – afferma essere lecito e necessario per gli enti di formazione rivolgersi a «società consorelle» che si assumono gli oneri nei confronti dei privati, in attesa di ricevere i fondi dalla Regione per l’acquisizione dei beni strumentali allo svolgimento dei corsi); la descrizione in termini macroscopici di un «sistema di associazione criminale» per condotte che, in ogni caso, riguarderebbero i rapporti tra un’unica società a lui riconducibile (Centro Servizi) e due soli enti di formazione; la mancata dimostrazione del carattere fittizio dei costi sostenuti dagli enti formativi, se non sulla base di una perizia discutibile e negando alle parti (anche alla moglie nel procedimento parallelo) di produrre consulenze – che egli invece allega alla memoria difensiva – che avrebbero confutato in modo incontrovertibili in sede di incidente probatorio le affermazioni dell’accusa, circa la stima di un immobile e l’effettiva erogazione e congruità dei costi di taluni servizi; la mancata acquisizione delle prove documentali sull’effettivo svolgimento, da parte sua, delle prestazioni professionali fatturate alle società a lui riferibili e dello svolgimento di attività professionale a favore della Caleservice da parte di altri professionisti, circostanza che smentisce in radice l’accusa di false fatturazioni e di frode fiscale e, in termini più generali, l’assunto accusatorio secondo cui lui si sarebbe giovato dei proventi illecitamente sottratti alla formazione; l’attribuzione a suo carico della fattispecie delittuosa collegata alla fittizia assunzione di due unità di personale presso l’ente di formazione, escludendo che fossero adibiti alla sua segreteria.
Come segnalato dal presidente, l’onorevole Genovese ha prodotto, lo scorso 9 aprile, una seconda memoria.
In essa il collega integra le motivazioni della sua richiesta alla Giunta di negare l’esecuzione della misura cautelare in ragione della sussistenza del fumus persecutionis nei suoi confronti. In particolare, pone l’accento sulla limitatissima incidenza che le fatture contestate avrebbero in ordine alla sua complessiva posizione patrimoniale, maturata in trenta anni di partecipazioni societarie e attività politica e professionale, sulla reale natura della società Caleservice, definita dal giudice come una «cartiera», senza riconoscere il notevole patrimonio – superiore ai 15 milioni di euro – e senza preoccuparsi di acquisirne i bilanci, e sul condizionamento del giudice procedente, che pure aveva riconosciuto l’inopportunità di continuare ad occuparsi della vicenda e aveva formulato istanza di astensione, per gravi ragioni di convenienza.
A quest’ultimo riguardo, il collega osserva che l’istanza sarebbe stata rigettata dal Presidente del Tribunale di Messina, in quanto essa non enunciava in modo completo i rapporti tra alcuni imputati e la moglie ed il cognato del Giudice. Altrettanto grave sarebbe poi stata la tempistica della procedura di astensione, ben dopo l’ordinanza di custodia cautelare che ha colpito la moglie dell’onorevole Genovese e nelle more della decisione sulla richiesta di custodia cautelare nei suoi confronti, a distanza di diversi mesi da quando erano emersi i collegamenti dell’inchiesta con i familiari del giudice.
Nella sua seconda memoria, l’onorevole Genovese richiama infine l’attenzione sulla «fuga di notizie» che avrebbe caratterizzato, anticipandone i contenuti, ogni atto giudiziario relativo all’inchiesta, così da sollecitare nell’opinione pubblica la convinzione della colpevolezza degli indagati e rendere doverose le ordinanze di custodia in carcere.
Sul capo dell’ordinanza relativo alle esigenze cautelari, rileva come il giudice, preso atto delle risultanze investigative, con l’ordinanza in esame abbia ritenuto di accogliere la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti del deputato Genovese.
Si ritengono sussistere gravi indizi per i reati ascritti e si qualifica in termini di eccezionale gravità la condotta dell’indagato, atteso che dalle indagini emerge la presenza di «una organizzazione criminale diffusa, ben avviata ed adeguatamente potente; che ha delinquito e ragionevolmente continuerà a delinquere. (…). Appare, dunque, ragionevolmente certa la reiterazione delle medesime condotte criminose. Deve ritenersi che unica misura adeguata a soddisfare le esigenze cautelari sia quella della custodia cautelare in carcere. (…) Quella dell’onorevole Genovese è decisamente una condizione assai più grave ed insidiosa in termini di potere di reiterazione delle condotte criminali. Basti, in proposito, osservare come questi operi raramente in prima persona, avvalendosi, invece, di una rete amplissima di prestanome e collaboratori che, di volta in volta, espone ed utilizza per operazioni lecite e illecite, e sui quali esercita uno straordinario potere di succubanza. (…) In tal senso la misura della custodia in carcere appare l’unica in grado quanto meno di attenuare i legami esistenti tra l’indagato e la rete di collaboratori e prestanome per il tramite dei quali lo stesso ha sinora agito».
Evidenzia come proprio dalle motivazioni delle esigenze cautelari espresse nell’ordinanza, la memoria difensiva dell’onorevole Genovese colga la sussistenza del fumus persecutionis. Nella memoria, infatti, si osserva che la valutazione del giudice non risulta ancorata ad un giudizio di oggettiva concretezza del pericolo della reiterazione, ma solo ad elementi meramente congetturali ed astratti che condurrebbero ad una «ragionevole certezza», né la scelta del giudice appare ispirata al canone di adeguatezza o di proporzionalità rispetto alla reale gravità della condotta.
Completato l’ excursus sul contenuto dell’ordinanza e delle note difensive, ritiene opportuno sottoporre ai colleghi della Giunta alcuni spunti di riflessione, in parte anche richiamando quanto già detto, e talune indicazioni per rendere più agevole l’ulteriore approfondimento del documento in esame.
Osserva, in primo luogo, come dalla lettura degli atti emergano talune circostanze e taluni fatti che possono essere ritenuti pacifici.
All’onorevole Genovese, in particolare, viene contestato, tra gli altri, il reato associativo poiché ritenuto al vertice di un’organizzazione, composta da persone fisiche, enti di formazione e società, avente lo scopo di distrarre risorse pubbliche destinate alla formazione, soprattutto in considerazione un pervasivo potere di condizionamento politico nei confronti della fonte principale dei finanziamenti pubblici: la Regione Sicilia. Eppure i soggetti la cui azione dovrebbe rappresentare la conditio sine qua non per la realizzazione del piano criminoso o non sono coinvolti dall’indagine o ne sono solo marginalmente lambiti. Si riferisce, in particolare, all’assessore pro tempore competente ed ai responsabili degli uffici dell’Amministrazione regionale.
Inoltre, l’associazione a delinquere della quale l’onorevole Genovese è considerato il capo e il promotore viene descritta come un’entità estremamente complessa e composita. Tuttavia, la prova (indiziaria) dell’esistenza della stessa viene ricavata da alcuni specifici e limitati rapporti intercorrenti fra soli tre soggetti: due enti di formazione (ARAM e LUMEN) ed una società riconducibile all’onorevole Genovese (Centro Servizi).
Vi è poi il tema della centralità dell’accertamento tecnico relativo alla congruità dei corrispettivi pagati dagli enti di formazione (come già detto, solo ARAM e LUMEN) per l’acquisto di beni e servizi da società (come precisato, soltanto la Centro Servizi) riconducibili allo stesso deputato Genovese. Tale accertamento, infatti, finisce per produrre importanti riflessi sulla qualificazione delle condotte in termini di illecito penale. In tale contesto si colloca la già citata questione, posta dall’onorevole Genovese nella sua memoria, delle richieste di incidente probatorio rigettate dal GIP.
Evidenzia, quindi, ulteriori questioni che presentano profili problematici e che, pertanto, meriterebbero uno specifico approfondimento – anche in termini di verifica della documentazione agli atti – da parte dei colleghi della Giunta.
Su riferisce, in primo luogo, alla presenza nei fascicoli trasmessi di un rilevante numero di intercettazioni disposte dalla Procura di Patti (e, quindi, provenienti da altro procedimento) nonché di intercettazioni definite dal GIP «casuali»: relative cioè a conversazioni tra taluni degli indagati e un deputato, l’onorevole Genovese.
Evidenzia, inoltre, talune peculiarità nel percorso logico-giuridico che ha condotto alla qualificazione di alcune condotte in termini di illecito penale.
Il Giudice della misura, segnatamente, ha ritenuto di qualificare talune condotte contestate all’onorevole Genovese in termini di peculato anziché di truffa, in contrasto con un giudicato cautelare interno.
Inoltre, in un altro passo dell’ordinanza, il GIP sembrerebbe configurare una sorta di imputazione sui generis, sostenendo che, per le medesime condotte, l’onorevole Genovese potrebbe essere imputato, in modo alternativo e forse anche cumulativo, per peculato, truffa e riciclaggio. Un simile modus operandi potrebbe fare ritenere che talune imputazioni abbiano un carattere, per così dire, «provvisorio».
Dalla lettura dell’ordinanza non si comprende agevolmente quali siano gli elementi di fatto emersi dopo il mese di luglio 2013 (ovvero dopo la prima ordinanza cautelare, che non ha riguardato l’onorevole Genovese, ma i suoi parenti e collaboratori), giacché sono proprio tali elementi sopravvenuti che dovrebbero giustificare, oggi, la richiesta di applicazione della misura cautelare a carico di Francantonio Genovese.
Sempre con riferimento al rapporto fra i due citati procedimenti cautelari sottolinea la particolarità rappresentata della sottoposizione agli arresti domiciliari, con la prima ordinanza, della moglie dell’onorevole Genovese, in costanza di convivenza con il Genovese medesimo.
Segnala, inoltre, di non avere rinvenuto nell’ordinanza, né negli atti di indagine, particolari elementi a sostegno della tesi accusatoria secondo la quale l’onorevole Genovese non svolgerebbe effettivamente la professione forense. Dalla consultazione degli atti non emergono attività di indagine volte, ad esempio, a verificarne l’iscrizione all’Albo, le cause patrocinate, la struttura e l’esistenza di collaboratori di studio.
Quanto, infine, alle esigenze cautelare invita i colleghi a valutare con la massima attenzione, tenendo conto delle peculiarità del caso di specie, la sola sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione dei reati, giacché il GIP non ha motivato con riferimento al pericolo di fuga ed al pericolo di inquinamento delle prove che devono, pertanto, ritenersi insussistenti.
Ignazio LA RUSSA, presidente, avverte che l’onorevole Genovese è presente e ne dispone quindi l’audizione.
(Viene introdotto il deputato Francantonio Genovese).
Francantonio GENOVESE (PD) ringrazia anticipatamente il Presidente e i componenti della Giunta per l’attenzione che gli riserveranno.
Prima di soffermarsi sulla genesi del procedimento penale che lo riguarda, sottolinea con rammarico di non essere riuscito ad ottenere, nonostante le ripetute richieste presentate in sede processuale dai suoi avvocati difensori, la possibilità di fornire in giudizio una prova piena della insussistenza delle accuse a lui rivolte, che avrebbe potuto essere l’elemento dirimente dell’intera vicenda giudiziaria. Ciò gli avrebbe evitato di dover comparire oggi dinanzi alla Giunta per giustificare comportamenti che sono stati considerati non rispettosi della legge.
Come risulta dagli atti di accusa e dalle memorie difensive da lui prodotte, il procedimento nasce da una vicenda circoscritta e specifica che riguarda la congruità dei canoni di locazione riferiti ad un immobile intestato alla società Centro Servizi, della quale è socio, e il noleggio di attrezzature. Il procedimento trae dunque origine da due contratti di locazione e da alcuni contratti di noleggio di attrezzature.
Ricorda che, in relazione alle vicende in questione, nel luglio del 2013 l’autorità giudiziaria ha disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di sua moglie, amministratrice della società Centro Servizi fino al 2010, e della sua più stretta collaboratrice, amministratrice dell’ente di formazione LUMEN fino al 2008. L’ordinanza ha riguardato anche altri soggetti, tra i quali una persona a lui politicamente vicina, che era il responsabile di un altro ente di formazione, l’ARAM, e un filone di inchiesta che riguardava un altro ente di formazione, l’ANCOL, che non aveva nulla a che vedere né con la sua parte politica né con le società a lui collegate.
Sin dal mese di novembre 2012, e ancor più da maggio 2013, è risultato a lui chiaro che si stesse mettendo in atto un disegno che prevedeva il coinvolgimento pieno e integrale della sua persona, anche sotto l’aspetto della sua attività imprenditoriale. Il dato che emerge nel corso del tempo è, infatti, che i suoi avvocati hanno invano tentato, con ripetute richieste, di riuscire a formare in giudizio, e prima che potessero essere emesse le ordinanze di custodia cautelare, una prova piena dell’assoluta congruità del canone, cosa che ad avviso della difesa è pienamente accertabile.
La valutazione sulla congruità dei canoni sia delle locazioni sia del noleggio delle attrezzature è stata affidata a due periti, il dottor Barreca e l’ingegner Megna, che alla luce dei fatti – è un’opinione della difesa – risultano soggetti non competenti a gestire in maniera chiara e lineare un passaggio cruciale delle indagini, che ha portato all’emissione delle ordinanze cautelari. Sorvola s ul fatto che l’ingegner Megna sia poco più che trentenne (perché esistono giovani brillanti, molto preparati); così come ritiene di sorvolare sulla circostanza che questi abbia conseguito una laurea triennale e che sia iscritto alla sezione B dell’albo dell’ordine degli ingegneri di Palermo, nella quale sono iscritti gli ingegneri specializzati in ingegneria chimica, industriale e meccanica, mentre la sezione A riguarda l’ingegneria edile. Al di là di tali considerazioni, osserva che la questione più rilevante riguarda il ribaltamento dei risultati ai quali sono pervenuti Barreca e Megna ad opera di ben cinque perizie di parte, effettuate non solo da ingegneri messinesi di comprovata esperienza, alcuni dei quali anche consulenti della Procura di Messina, ma anche da un’ulteriore consulenza commissionata al professor Sergio Mattia, titolare della Cattedra di Estimo del Politecnico di Milano. Tali perizie dimostrano, ad avviso della difesa in maniera inequivocabile, la congruità assoluta dei canoni di locazione applicando i criteri scientifici che sono dettati in maniera chiara anche dall’Agenzia del territorio. Di tali criteri si avvalgono tutti gli enti pubblici quando affittano locali da privati, mediante ricorso al metodo delle comparazioni che rappresenta un meccanismo scientificamente approvato.
Le perizie dell’ingegner Megna e del dottor Barreca sono state effettuate senza utilizzare questo metodo, nonostante il Pubblico Ministero nel quesito originario avesse previsto che la comparazione dovesse essere effettuata con immobili ubicati nella stessa zona censuaria e con le stesse caratteristiche. Occorre però tenere conto di un dato fondamentale: l’immobile in questione di proprietà della Centro Servizi era destinato a scuola e stanti le caratteristiche specifiche di tale immobile, così come stabilito dalla stessa Agenzia del territorio, ma anche dal Manuale operativo per le stime immobiliari (il MOSI), sarebbe stato necessario utilizzare i cosiddetti coefficienti di omogeneizzazione che tengono conto della durata del contratto, delle tecnologie di cui dispone l’immobile, della vetustà e di altre caratteristiche.
Ricorda che queste comparazioni sono state effettuate in relazione a 15 immobili ubicati nella città di Messina. Da tali comparazioni la congruità dei canoni di locazione rispetto ai citati criteri è apparsa e appare evidente, con coefficienti che variano a seconda delle caratteristiche proprie dell’immobile.
L’ultima perizia, quella commissionata al professor Mattia, mette invece a confronto in via immediata e diretta due immobili, quello della società Centro Servizi e un altro, posto a 200 metri di distanza dal primo, che a sua volta risulta locato all’Università degli studi di Messina e alla provincia di Messina. Effettuando un calcolo matematico, partendo dal costo di costruzione si arriva al risultato finale che è assolutamente congruo.
Evidenzia che il pool di pubblici ministeri e il giudice per le indagini preliminari si sono avventurati in una ricerca affannosa di suoi contatti, collegamenti, costruzioni societarie, disponibilità di enti di formazione non approdando, di fatto, ad alcun risultato se non a quello di sostenere che l’unico profilo di illiceità riguardi l’immobile di viale Principe Umberto.
Osserva che il primo procedimento sta ancora andando avanti ancorché le misure di custodia cautelare siano state revocate dal Tribunale di Messina nel mese di gennaio.
Fa presente che, in relazione a tale procedimento, due giorni fa una parte dei difensori dei coindagati hanno interrogato il dottor Barreca, estensore delle perizie. Preannuncia che appena disporrà delle trascrizioni dell’interrogatorio, le metterà a disposizione della Giunta. Desidera porre l’attenzione sul fatto che alla domanda posta dai difensori al dottor Barreca circa la sua esperienza in materia di valutazioni immobiliari e di contratti di noleggio, il perito ha risposto testualmente: «Non ricordo di avere mai fatto alcuna perizia relativa a valutazioni immobiliari o perizie che riguardino noleggi informatici, attrezzature informatiche». Alla ulteriore domanda posta al Barreca dai legali su quale fosse stato il criterio da lui utilizzato nell’effettuare perizie in relazione al noleggio di attrezzature informatiche in qualità di esperto del settore, la risposta è stata altrettanto chiara, vale a dire: «nessun criterio», essendosi basato sulla sua opinione personale. La perizia si è basata quindi sul metodo personale del dottor Barreca e non sulla comparazione dei metodi utilizzati, ad esempio, dagli altri enti di formazione in Sicilia con quelli utilizzati in altre parti del Paese. Il Barreca ribadiva quindi che secondo la sua opinione di fondo – e questa gli era stata chiesta dai PM – la valutazione doveva necessariamente oscillare tra il 40 e il 60 per cento del costo eventuale.
Non ritiene di prolungarsi ulteriormente su tali aspetti in quanto, come accennato poc’anzi, è sua intenzione trasmettere le trascrizioni della deposizione del perito per consentire ai componenti della Giunta di valutare con piena consapevolezza anche il livello fattuale su cui si basa tutto l’impianto accusatorio.
In relazione all’utilizzo delle società satellite e delle «società consorelle», aspetto sul quale si sofferma il GIP, osserva che in Sicilia è diffusa l’idea che la macchina amministrativa non funzioni e vi sono scarse disponibilità economiche. Pertanto l’utilizzo delle società consorelle, di supporto agli enti di formazione, rappresenta non la prassi, ma una regola consolidata: tali enti, infatti, non riuscendo ad avere un capitale ed un patrimonio propri, vivono esclusivamente di ciò che deriva dal finanziamento regionale, che arriva con estremo ritardo, e quindi in tempi che non sarebbero idonei a consentire la sopravvivenza degli stessi enti. E questo non è codificato in provvedimenti legislativi, ma risulta nei fatti, così come ha dichiarato lo stesso direttore generale della formazione di allora, Ludovico Albert, nell’interrogatorio reso dinanzi al GIP.
Ciò che il GIP contesta è la effettiva erogazione di prestazioni da parte degli enti di formazione e la loro congruità rispetto ai valori di mercato.
Desidera ribadire che nel procedimento giudiziario non vi è mai stata alcuna contestazione relativa a «corsi fantasma». Osserva, infatti, che sono stati interrogati 421 allievi che hanno dichiarato di aver frequentato i corsi e di aver incassato gli assegni relativi alla loro diaria giornaliera. Evidenzia che solo un partecipante ai corsi ha dichiarato di non essere sicuro di aver firmato la ricevuta ma di aver senz’altro incassato l’assegno.
Al di là della «cortina fumogena» creatasi attorno alla vicenda giudiziaria che lo riguarda e che ha assunto dimensioni straordinariamente rilevanti sul p iano mediatico, come se la gestione di decine di milioni di euro fosse finalizzata al trasferimento di tale denaro nelle mani di qualche manigoldo, osserva che le somme effettivamente contestate sono pari a 350 mila euro, in relazione ai canoni di locazione, e a 150-200 mila euro, con riferimento ai contratti di fornitura di attrezzature.
Richiama l’accusa formulata dal GIP nei suoi confronti di aver utilizzato, di fatto, una società «cartiera» finalizzata a tale scopo, oltre che un gran numero di prestanomi, di collaboratori diretti e di familiari. Evidenzia come il giudice, aderendo alla prospettazione avanzata dai PM, si sia formato il convincimento che dalla rete dei rapporti di carattere familiare, politico ed economico a lui riconducibile discenda necessariamente la creazione di un’associazione a delinquere. Osserva tuttavia come su tale aspetto non sia stata acquisita, né ricercata, alcuna prova.
Ritiene opportuno soffermarsi sugli elementi dai quali, a suo avviso, emerge la sussistenza del fumus persecutionisnei suoi confronti. Pone l’accento, in particolare, sulle intercettazioni, sia quelle disposte dal tribunale di Patti, relative ad un procedimento completamente diverso e che non aveva nulla a che vedere con quello del tribunale di Messina, sia quelle disposte in relazione al procedimento in esame, che a suo avviso appaiono non casuali, nonostante il giudice continui ad affermare, in maniera un po’ affannosa, la casualità delle stesse.
Richiama, a tal proposito, le frequenti intercettazioni riportate anche nelle note informative delle conversazioni della sua segretaria, del suo più stretto collaboratore e di sua moglie, nonché quelle relative ad un’utenza telefonica che – seppure intestata alla società Caronte Tourist Spa – era ed è noto agli inquirenti che fosse di suo uso esclusivo. Alla luce di tali elementi, reputa pertanto difficile poter considerare casuale l’attività di captazione, che sotto questo profilo configura quindi una violazione immediata e diretta delle prerogative parlamentari, come stabilito dalla Corte costituzionale in sentenze del 2007 e del 2010.
Ritiene, inoltre, che vi sia stata di fatto una manipolazione di alcune fasi processuali che appare oltremodo evidente, in quanto la contestazione del reato a lui addebitato, se fosse stata fondata, sarebbe dovuta avvenire in una fase precedente, e non quando effettivamente è accaduto, ricorrendo del resto a formule, a suo parere, un po’ raffazzonate per coinvolgerlo in un procedimento già in corso. Sottolinea che il rifiuto opposto dal GIP alle sue richieste di esperire l’incidente probatorio rappresenta l’aspetto che più di ogni altro fa sorgere il sospetto che si vogliano mettere da parte gli elementi idonei a porre in dubbio la fondatezza dell’impianto accusatorio. Del resto, la stessa motivazione formale fornita dal GIP a sostegno del diniego, a suo giudizio, è abbastanza banale in quanto fondata sulla semplice circostanza di fatto che i 60 giorni della fase dibattimentale sarebbero stati sufficienti per completare una perizia. Ricorda, a tal proposito, che nella sua memoria ha già rilevato che tale giustificazione non appare plausibile ed è stata anche smentita dagli atti processuali, tenuto conto che nel procedimento relativo alla prima tranche di indagini le perizie dell’ingegner Megna e del dottor Barreca sono state consegnate una il 18 marzo 2014 e un’altra proprio in questi giorni, in un tempo di gran lunga superiore ai richiamati 60 giorni.
Ribadisce ancora una volta che il nucleo essenziale della vicenda giudiziaria riguarda l’immobile di viale Principe Umberto, richiamando le accuse dei magistrati che gli attribuiscono un ruolo preminente nella commissione del reato associativo senza concretamente riconoscergli il ruolo di soggetto operativo attribuito ad altri. Evidenzia pertanto la contraddizione dell’impianto accusatorio in base al quale è chiamato a rispondere per il macro reato associativo, mentre rispetto ai reati fine risulta assolutamente estraneo. Ciò mette in luce la strategia utilizzata nei suoi confronti: si tratta a suo avviso solo ed esclusivamente di un attacco processuale, perché non rispondendo dei reati fine può essergli contestata, attraverso le false fatturazioni, l’ipotesi di riciclaggio.
Considera questa una ingegnosa macchinazione che comunque fa venir meno la clausola di riserva prevista dall’articolo 648- bis del codice penale. Osserva che l’accusa di riciclaggio di fatto è contraddittoria sotto ogni profilo: infatti, o egli viene chiamato a rispondere dei reati di truffa e peculato, venendo quindi meno l’ipotesi del riciclaggio, oppure dei reati di truffa e peculato devono rispondere solo ed esclusivamente Cannavò e Schirò in relazione all’altro procedimento penale in corso. In questo secondo caso sarebbe evidente la sua assoluta estraneità ai fatti che pure sono a lui addebitati. Tuttavia, tale evenienza non può conciliarsi con la circostanza che, ad avviso del GIP, la Cannavò sarebbe una mera esecutrice delle sue indicazioni e compirebbe ogni atto solo ed esclusivamente dietro sua specifica direttiva.
A suo parere, queste tesi sembrano fra loro inconciliabili e forniscono un indizio del livello di credibilità con il quale il GIP affronta l’accusa di riciclaggio, che appare strategicamente strumentale ai fini della richiesta di misura cautelare. Ciò emerge con una certa evidenza anche in un passaggio dell’ordinanza nel quale si prospetta, quasi in termini alternativi tra loro, la contestazione di una serie di reati – fra cui il riciclaggio, la ricettazione, il peculato e la truffa – al fine di assicurare, qualunque sia l’ipotesi di reato da contestare, la base giuridica per l’ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Ritiene di non doversi dilungare sull’accusa di peculato, essendo sufficiente richiamare il fatto che, nonostante il giudicato cautelare interno di cui alla sentenza del 6 febbraio del 2014, che ha derubricato il reato di peculato in truffa aggravata, pervicacemente il GIP continua a contestargli il reato di peculato, con il solo intento di rendere più grave la sua posizione.
In relazione ai reati fiscali, ritiene che questi meritino una trattazione a parte, evidenziando che le relative accuse appaiono strumentali rispetto alla contestazione del reato di riciclaggio. Non risulta, infatti, lo svolgimento di alcun approfondimento tecnico al riguardo, ma solo ed esclusivamente l’acquisizione di documentazione contabile, con l’esclusione di qualunque altro elemento probatorio.
Ricorda che, in merito a tali accuse, il teste fondamentale è il notaio Parisi, il quale sostiene di conoscerlo soltanto nella sua veste di imprenditore e di politico, ma non in quella di avvocato. A tal riguardo, confessa di non comprendere su quali basi sia stata formulata tale affermazione nei suoi confronti, dal momento che dal 1994 svolge la professione forense e che nel 2009 è diventato avvocato patrocinante in Cassazione. Chiarisce, inoltre, che la sua attività professionale di avvocato risulta abbastanza avviata e con un fatturato significativo, in particolare n el settore societario.
Non riesce, pertanto, a comprendere su quali basi, e senza procedere ad alcun approfondimento, si vada a sostenere un’ipotesi di tale genere. Dall’altra parte, poi, si giunge all’ipotesi, a suo avviso altrettanto schizofrenica, secondo la quale egli avrebbe fatturato prestazioni inesistenti alla Centro Servizi, drenando in tal modo denaro pubblico, ed avrebbe trasferito le somme relative alla società Caleservice. Quest’ultima è una società di servizi che gli fornisce tutto ciò che è necessario affinché il suo studio possa svolgere le proprie attività. Non riesce a comprendere quale potrebbe essere il motivo per cui, una volta eventualmente acquisiti i proventi illeciti, egli dovrebbe trasferirli a una società con cui esiste un contratto di consulenza e di gestione dal 1997, contratto rinnovato nel 2004: ciò a meno che non si ritenga che già all’epoca egli avrebbe ipotizzato un riciclaggio di denaro che deriva dai finanziamenti regionali alla formazione a far data dal 2006.
Quanto al fatto che la Caleservice sarebbe una «cartiera», egli ritiene che possa essere definita cartiera una società priva di patrimonio e utilizzata solo per gestire attività truffaldine. La Caleservice, invece, è una società che gestisce il patrimonio suo personale e della sua famiglia e che, nel corso degli anni, è sempre stata gestita in maniera chiara e trasparente.
In relazione ai reati fiscali ipotizzati, ribadisce che nessuna documentazione è stata richiesta, ma tale documentazione è disponibile e da essa risulta che ogni fattura trova una sua effettiva giustificazione.
Nella sua prima memoria in maniera sfumata, e in modo più diretto nella seconda memoria, ha inoltre affrontato la questione del Giudice delle indagini preliminari. Questi ha sentito il bisogno di presentare una richiesta di astensione al Presidente del Tribunale, peraltro con una formulazione che, con un po’ di malizia, si potrebbe sostenere che orientava anche la risposta del Presidente del tribunale: il giudice sembra avere un po’ sottovalutato la questione, riferendosi soltanto al Lamacchia – quando lo stesso giudice ha sostenuto che Lamacchia era un suo fedelissimo esecutore politico e amministrativo – ed anche in relazione al fatto che avrebbe appreso della vicenda che riguardava il cognato e la moglie solo il 23 gennaio, quindi dopo che era già stata formulata, in data 28 dicembre, la richiesta di misura cautelare. Peraltro, già in un’informativa del 4 settembre c’era un riferimento al cognato del giudice quale persona che gravitava nell’area di Innovazione, che faceva capo all’onorevole Genovese e ad altri esponenti politici. Tale informativa era allegata al fascicolo di proroga delle indagini preliminari, la cui richiesta gli è stata notificata il 12 novembre, e che era stata depositata, fuori termine, il 10 novembre con la scritta «senza il relativo fascicolo». Le ipotesi, al riguardo, sono due: o il predetto fascicolo non è mai arrivato e quindi il giudice ha concesso una proroga «al buio» senza verificare se la proroga fosse legittima e nonostante l’opposizione formulata dai suoi legali con riferimento al rispetto dei termini di legge, oppure il fascicolo è effettivamente arrivato al giudice e, in tal caso, il riferimento al cognato doveva essere a lui noto già il 12 novembre. In ogni caso, nel mese di novembre vi era stato anche un susseguirsi di notizie giornalistiche al riguardo che avrebbero comunque potuto mettere in allarme il giudice.
Invita i componenti della Giunta a valutare con attenzione anche l’aspetto relativo alle esigenze cautelari, tenendo conto anche della riforma recentemente deliberata dalla Camera, modificata dal Senato, e di nuovo all’esame di questo ramo del Parlamento. L’ordinanza afferma che la sua sarebbe una condizione assai grave ed insidiosa in termini di reiterazione delle condotte criminali, in relazione alla quantità e intensità dei rapporti intrattenuti con soggetti all’interno delle Istituzioni nonché alla sua disponibilità di sofisticati sistemi di occultamento dei proventi illeciti. Peraltro, se i sistemi di occultamento dei proventi illeciti consistono nel fatto che egli stesso effettuerebbe delle prestazioni e poi girerebbe i relativi proventi ad un’altra società, deve dire di non avere mai visto un riciclatore di denaro che per far perdere le tracce di tali rapporti trasferisce le somme ad una società a lui riconducibile, in forme regolarmente tracciate attraverso conti correnti bancari.
Esprime, in conclusione, la sua preoccupazione per la vicenda che lo riguarda, tanto in termini di costruzione dell’impianto accusatorio quanto in relazione al volume dei reati che gli vengono addebitati.
Ignazio LA RUSSA, presidente, ricorda come compito della Giunta sia quello di verificare l’eventuale sussistenza di unfumus persecutionis non rispetto al merito dei fatti, ma avendo riguardo alla richiesta di custodia cautelare: va evidenziato in proposito che, nel caso di specie, l’elemento fondante della richiesta è il pericolo di reiterazione. Su questo aspetto, decisivo per valutare la fondatezza della richiesta di custodia cautelare, al di là del merito della vicenda, chiede all’onorevole Genovese se intenda chiarire quali siano oggi le attività connesse alla formazione professionale di enti e società a lui direttamente o indirettamente riferibili. Chiede, inoltre, se l’asserita capacità di attrarre i finanziamenti derivasse dal suo ruolo di politico regionale e quale sia attualmente il suo ruolo in questo contesto.
Francantonio GENOVESE (PD) dichiara che è evidente, e anche accertabile, che il suo rapporto con la regione è radicalmente cambiato, e non è un caso che gli attacchi principali rispetto alle sue vicende giudiziarie provengano proprio dall’attuale Presidente della regione e dall’Assessore regionale alla formazione. Fa presente come l’atteggiamento dell’amministrazione regionale nei suoi confronti sia di chiusura totale e ritiene che tale situazione perdurerà fino a quando le sue vicende giudiziarie non saranno chiarite con sentenza definitiva. Parimenti di chiusura totale è l’atteggiamento dell’amministrazione regionale nei confronti degli enti di formazione ARAN e LUMEN, che hanno peraltro già cessato ufficialmente le loro attività, anche rilasciando i relativi immobili.
Ricorda come la capacità di attrarre finanziamenti regionali non possa essere in nessun modo e in nessun caso ricollegata, in questo settore, a soggetti singoli. Gli enti di formazione, negli ultimi anni, hanno visto nella migliore delle ipotesi confermato ovvero diminuito il finanziamento che avevano già in essere: per quanto gli consta, nessun incremento è previsto negli anni a venire. A suo avviso, risulta chiaro che la possibilità di una eventuale remota ipotesi di reiterazione del reato da parte sua è fuori da ogni logica, tenuto conto dell’attuale situazione dei suoi rapporti con la regione.
Gianfranco Giovanni CHIARELLI (FI-PdL) chiede all’onorevole Genovese chiarimenti in merito alle richieste di incidente probatorio respinte dal GIP, nonché se le misure cautelari disposte con l’ordinanza del mese di luglio 2013 siano state nel frattempo revocate.
Francantonio GENOVESE (PD) precisa che la prima richiesta di incidente probatorio è stata presentata da sua moglie e da altri coindagati nell’ambito del procedimento relativo al primo filone di indagine ed è stata rigettata in quanto ritenuta improcedibile: ciò, a suo giudizio, al solo scopo di procrastinare i termini della fase cautelare. La seconda richiesta è stata da lui presentata lo scorso 6 febbraio ed è stata rigettata in quanto è stato ritenuto che la consulenza tecnica potesse concludersi nel termine di sessanta giorni: quest’ultimo fatto, come già chiarito, è stato già processualmente smentito.
Quanto alle misure cautelari in questione, esse sono state revocate dal Tribunale ordinario nel scorso mese di gennaio.
Giulia GRILLO (M5S) chiede all’onorevole Genovese chiarimenti sulla Caleservice e sulle relative attività di consulenza.
Francantonio GENOVESE (PD) ricorda che la Caleservice ha svolto una sola consulenza del valore di 15.000 euro in favore della LUMEN. A fronte di tale consulenza vi è un contratto tra l’ente di formazione e la società, nonché un contratto tra la Caleservice e l’avvocato Antonella Russo, che di fatto ha espletato il lavoro. Fa presente di essere in possesso di tale documenti, che potrà depositare, ove richiesto. Tiene peraltro a precisare come nell’ordinanza sia presente un errore, nella parte in cui si sostiene che la Caleservice avrebbe emesso una fattura di 95.000 euro in favore della Centro Servizi, mentre è vero sostanzialmente il contrario: è infatti la Centro Servizi che ha svolto una consulenza tecnica in favore della Caleservice relativamente ad alcuni immobili.
Giulia GRILLO (M5S) invita l’onorevole Genovese a fornire ulteriori precisazioni circa la funzione e le attività della Caleservice.
Francantonio GENOVESE (PD) chiarisce che la Caleservice è una società fondata nel 1997 ed è tuttora attiva. In questo arco di tempo la società ha svolto attività di consulenza e di gestione in favore del suo studio professionale, dal momento che esso non dispone di propri dipendenti né collaboratori, ma ottiene dalla stessa tutti i servizi necessari in base ad un apposito contratto di natura omnicomprensiva. Inoltre, la Caleservice è una società immobiliare e di partecipazioni.
Giulia GRILLO (M5S) vorrebbe altresì sapere dall’onorevole Genovese se egli attualmente ricopre incarichi di partito.
Ignazio LA RUSSA, presidente, fa presente che questa domanda potrebbe essere rilevante solo nel caso in cui si ipotizzasse l’esistenza di un fumus persecutionis nei confronti dell’onorevole Genovese con riferimento alla sua attività politica.
Marco DI LELLO (Misto-PSI-PLI) chiede all’onorevole Genovese se sia in grado di chiarire la rilevanza della figura di Piero David nella sua vicenda processuale, dal momento che, da un lato, questa appare marginale, dall’altro però essa viene posta addirittura a fondamento della richiesta di astensione presentata dal GIP.
Francantonio GENOVESE (PD) precisa che Piero David è un iscritto al PD, che attualmente fa parte della direzione regionale del partito. In passato è stato il capo della segreteria tecnica dell’Assessore alla formazione Mario Centorrino, rivestendo quindi quella che è sostanzialmente la seconda carica in ordine di importanza dell’assessorato.
Franco VAZIO (PD) chiede all’onorevole Genovese se può confermare, ed eventualmente documentare, se oltre ad ARAM e LUMEN vi siano oggi enti di formazione riconducibili direttamente o indirettamente alla sua persona, ovvero a società da lui partecipate in quota significativa.
Francantonio GENOVESE (PD) precisa che esiste attualmente una sola società con le caratteristiche richiamate dall’onorevole Vazio. Tale società, che sta esaurendo la propria attività, è la Training Service, una società consortile a responsabilità limitata con sede nel comune di Barcellona, che ha attualmente in atto un finanziamento relativo alla formazione professionale «Avviso 20». Non ricorda esattamente l’ammontare della quota di finanziamento, peraltro ormai definito e cristallizzato. Si riserva di fornire quanto prima la relativa documentazione, come richiesto dall’onorevole Vazio.
Franco VAZIO (PD) rileva come sia dall’ordinanza sia dalle memorie difensive risulti che il Tribunale avrebbe revocato gli arresti disposti nei confronti degli imputati del primo filone di indagine. Poiché questo provvedimento non risulta agli atti, chiede all’onorevole Genovese se egli possa metterlo a disposizione della Giunta, al fine di conoscere le motivazioni per le quali le esigenze cautelari sarebbero venute meno.
Francantonio GENOVESE (PD) assicura che porrà quanto prima a disposizione della Giunta anche copia di questo documento.
Ignazio LA RUSSA, presidente, nessun altro chiedendo di intervenire, dichiara chiusa l’audizione del deputato Francantonio Genovese.
(Il deputato Francantonio Genovese si allontana dall’aula).
Ignazio LA RUSSA, presidente, osserva che – dopo la relazione dell’onorevole Leone e l’audizione del deputato Genovese – i membri della Giunta hanno molti elementi su cui riflettere. Ipotizza pertanto una breve sospensione dei lavori per avviare successivamente, alla ripresa della seduta, la discussione.
Franco VAZIO (PD) osserva che sarebbe utile proseguire l’esame avendo già acquisito la ulteriore documentazione che il collega Genovese si è dichiarato disponibile a fornire.
Ignazio LA RUSSA, presidente, preso atto di questa esigenza e nessuno chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell’esame ad altra seduta.
La seduta termina alle 12.20.
AVVERTENZA
I seguenti punti all’ordine del giorno non sono stati trattati:
Richiesta di deliberazione pervenuta dal tribunale di Bergamo nell’ambito del procedimento penale (n. 953/2012 RGNR – n. 11742/2012 RG GIP) nei confronti del deputato Umberto Bossi) seguito esame doc. IV-ter, n.10 – rel. Leone)
UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAI RAPPRESENTANTI DEI GRUPPI
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