Non è certo un’impresa facile portare in scena un cult del cinema come “Frankenstein Junior”, perché se da un lato gioca a favore l’elemento della riconoscibilità della storia e delle battute che la contraddistinguono, tuttavia non è semplice sfuggire al paragone. Bisogna misurarsi con quella fama: è come per un figlio d’arte che costantemente deve provare il proprio valore e meritare il posto che occupa. E il riferimento non è del tutto casuale. A vestire i panni del protagonista della storia a teatro, il dottor Frankenstein, è appunto un figlio d’arte, Gianpiero Ingrassia, un veterano del musical. La versione italiana di quello celebre di Mel Brooks, considerato un mostro sacro del cinema comico, è stato portato sulla scena, ieri sera, al Teatro Vittorio Emanuele, prodotto dalla Compagnia della Rancia e diretto nella versione italiana da Saverio Marconi. Testi e musiche firmate dalla stesso Brooks. Fedele nella scenografia alla fotografia in bianco e nero — stile anni Venti — della pellicola del 1974, diretta appunto da Mel Brooks e interpretata da un indimenticabile Gene Wilder nei panni del dottor Frankenstein. Il film — per chi non lo sapesse — fu campione di incassi e passò alla storia come una delle migliori cento commedie americane di tutti i tempi. Ieri sera il teatro non straripava di gente ma chi ha partecipato sembrava tuttavia soddisfatto del risultato. Oltre ad un bravo Giampiero Ingrassia/dottor Frankenstein che si è mantenuto fedele a quelle che sono le caratteristiche del suo personaggio, ripercorrendo per filo e per segno le battute del film, si sono distinti sul palco gli attori che hanno fatto da spalla alla figura principale, rivelandosi piuttosto dei veri e propri protagonisti. E come spesso accade, nelle migliori storie, l’aiutante gioca un ruolo determinante nello svolgimento degli accadimenti. Nella fattispecie, si sono rivelati straordinari Mauro Simone/Igor e Altea Russo/Frau Blücher. I due attori, molto credibili nelle loro interpretazioni, sono riusciti a enfatizzare al meglio gli aspetti caricaturali ed eccessivi tipici dei protagonisti della parodia. Perché di parodia appunto si tratta e in quanto tale ha come principale obiettivo quello di stravolgere determinati elementi e spingerli verso l’estremo dell’assurdo. La storia è semplice e si rifà al racconto dei racconti — quello di Mary Shelley — che ha come protagonista il mostro di Frankenstein; interpretato nel musical dal baritono Fabrizio Corucci. Nella versione di Brooks, il dottor Frankenstein junior è uno stimato chirurgo che vive a New York, intenzionalmente dimentico del passato dei suoi avi in Transilvania, considerati folli per le loro particolari idee sulla rianimazione della materia inanimata. Per distinguersi da loro e soprattutto dal nonno con il quale non condivide i precetti medici, muta il proprio cognome in Frankenstin. Nelle prime battute della rappresentazione il medico newyorkese/Ingrassia si lancia nell’elogio musicale del cervello, simbolo indiscusso di razionalità. Una volta recatosi in Transilvania, appresa la morte del nonno, però, il destino lo colpisce e anche la sua ragione comincia a vacillare. Il fulcro sul quale aveva costruito la propria esistenza fino a quel momento si sposta gradualmente dalla razionalità al cuore, alla passione per quello che considerava prima un tentativo folle. Alla fine il destino dei Frankenstein lo coglie di sorpresa (buon sangue non mente!) e il dottore si innamora anche di Inga, l’effervescente e sexy assistente interpretata da Valentina Gullace — da evidenziare la scena in cui l’attrice esegue una spaccata perfetta sulle note che accompagnano la scena. Aiutato dai suoi e osteggiato dagli abitanti transilvani, avversi alle teorie e pratiche dei Frankenstein, il dottore si trasforma in sub-creatore realizzando il tentativo di riportare in vita la materia inanimata. Fioccano le battute e la frasi celebri che chi ha visto il film ricorderà: «Lupo Ulu-là, castello ulu-lì», «Si può fare!», «Gobba? Quale gobba?» e così via. In un susseguirsi di cambi di scena veloci e alternanza dei personaggi, la vicenda si svolge tra ballo, canto e recitazione, scambi che tengono alta — soprattutto nelle prima parte — l’attenzione del pubblico. Affrontando mille peripezie e rischiando anche la morte, Frankenstein/Ingrassia in un impeto di sincera condivisione regala al “mostro” una parte di sé e in cambio riceve da lui qualcos’altro. Anche la vecchia fiamma newyorkese del dottor Frankenstein, la schizzinosa Elisabeth, si innamora della Creatura. A vestire i panni della fidanzata è un’esilarante e brava Giulia Ottonello, che già ai sui esordi nel programma tv “Amici” aveva dato prova di grandi qualità comiche — e non solo —, della sua predisposizione al ballo, canto e recitazione. Nelle battute finali, la Creatura/Fabrizio Corucci ormai rinata e umanizzata, riconoscente per la nuova possibilità che gli è stata offerta, nel tentativo di salvare Frankenstein da morte certa, in seguito al suo gesto sacrificale, si apre al futuro e recita: «Una pennellata di speranza può dare vita anche a un cuore morto!». E questo e anche l’augurio che facciamo al Teatro Vittorio Emanuele che ha affrontato una stagione complicata, rimasto imbrigliato in una matassa difficile da sbrogliare. Noi, cittadini messinesi, ci auguriamo che una pennellata di colore sia di buon auspicio per il futuro del nostro Teatro, fiduciosi in un avvenire che abbia veramente il sapore della rinascita.
Giusy Gerace
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