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A colloquio con Piero Giuliacci: protagonista di “Cavalleria Rusticana” e “Pagliacci”

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piero giuliacci 12Accadeva nel marzo 1893 al Teatro Storchi di Modena: per la prima volta un tenore affrontava nella stessa serata il Canio dei Pagliacci e Turiddu in Cavalleria rusticana. E fu un trionfo, merito del grande Fiorello Giraud, al quale un anno prima era toccato il privilegio di creare il ruolo di Canio al Teatro dal Verme di Milano, sotto la direzione di Arturo Toscanini. Da allora non sono tanti i tenori che hanno tentato il passo, e ancora meno quelli che lo  hanno superato indenni.

A raccogliere la sfida è ora Piero Giuliacci, star della lirica, romano di nascita, ma madre romagnola e padre umbro. Protagonista sui palcoscenici lirici più prestigiosi, il 2 e il 4 agosto Giuliacci si esibirà al Teatro Antico di Taormina nel dittico dei capolavori di Mascagni e Leoncavallo: due splendidi allestimenti firmati dal regista e scenografo Enrico Castiglione, metteur en scene di fama internazionale, che a partire dal 2007, anno dopo anno, ha fatto del festival lirico di Taormina uno degli appuntamenti musicali di maggior richiamo a livello mondiale. La programmazione è ospitata nel cartellone di Taormina Arte e inaugura la sezione “Musica&Danza”, affidata alla direzione artistica dello stesso Enrico Castiglione. 

Incontriamo Giuliacci alle prove che fervono nella cavea al Teatro Antico, che lo scorso anno ha salutato il suo Canio, tributandogli un autentico trionfo.

 

Cosa l’ha spinto al gran cimento?

«L’amore per il pubblico di Taormina, con me così generoso. È la prima volta che canto i due ruoli insieme: un’opportunità di cui sono particolarmente grato ad Enrico Castiglione, un autentico maestro sul piano scenico ma anche profondo conoscitore delle partiture e delle voci. La sfida consiste nel fatto che i ruoli sono vocalmente differenti: come si dice in gergo, Turiddu è un tenore “lirico”, Canio un “lirico spinto”, se non drammatico, di maggiore spessore e possanza vocale, come suggerisce la scrittura musicale ma anche la diversa psicologia ed età dei personaggi: ventenne Turiddu, reduce al servizio militare, trentacinquenne Canio, per l’epoca un uomo più che maturo. Certo il finale “Addio alla madre” di Turiddu richiede ampi polmoni, ma la serenata di avvio postula una fresca leggerezza. Canio è invece sempre alle prese con una vocalità drammatica».

C’è un fil rouge tra i due personaggi?

«Certamente: c’è intanto un’affinità stilistica, perché siamo di fronte a due capolavori del verismo musicale. Alla base dei due plot c’è poi l’identica mentalità in voga nella bassa Italia fino a pochi decenni fa, e forse non del tutto superata: ossia l’idea che il tradimento del coniuge va lavato con il sangue. I due stanno però dalla parte opposta: Canio è il tradito, Turiddu il seduttore, ma siamo sempre in tema di delitto d’onore, paradigmatico in Cavalleria: Alfio, tradito dalla moglie Lola, deve sfidare Turiddu al duello rusticano. In Pagliacci, ispirato peraltro ad un fatto vero, Canio uccide d’impulso non solo il rivale ma anche la moglie fedifraga, consumando un atroce femminicidio, una tragedia purtroppo anche dei nostri giorni, e non soltanto meridionale».

Delitto d’onore, dunque: ma Turiddu perché e per chi va incontro alla morte, Santuzza o Lola? 

«La frase chiave di Turiddu è “Bada, Santuzza schiavo non sono di questa vana tua gelosia!” Lui è maschilista, vuole comandare sulla sua donna, è giovane, irruente: Lola è un sogno erotico, ma è Santuzza che ama e vuole sposare. “Perché seguirmi, perché spiarmi”, le dice, facendo intendere che è per questo recriminare che l’avventura sta per trasformarsi in tragedia. Ed è per Santuzza che Turiddu vorrebbe vincere Alfio in duello. Il mio grande maestro, Giuseppe Morelli, con il quale ho studiato il ruolo, mi ricordava la fonte verghiana, laddove Alfio, sapendo di essere meno giovane e lesto, butta una manciata di terra negli occhi di Turiddu e lo uccide slealmente». 

Invece Canio uccide Nedda per “troppo amore”, come spesso riportato nelle cronache dei femminicidi?

«Tanto il suo delitto è atroce, quanto la sua sofferenza di padre padrone. La frase rivelatrice del tormento di Canio è “No, pagliaccio non sono”. Pretende rispetto. Lui è un uomo avanti negli anni per la giovanissima Nedda, spesso irriverente; lui l’ha tolta dalla strada, le ha dato un’identità, la giudica perciò irriconoscente. Avverte nell’aria il pericolo costante del tradimento, è geloso fino all’inverosimile. Ma a far traboccare il caso è il modo in cui lei, con passionalità e ingenuità tutta giovanile tenta di ingannarlo e giocarselo, come se avesse a che fare con un rimbecillito». 

La sua collaborazione con Enrico Castiglione proseguirà già in settembre con la Tosca che porterete in Turchia. Come si è consolidato il vostro rapporto professionale?

«Trovo che sia un grande regista, scenografo, in grado di conquistare il pubblico con allestimenti di grande fascino, dalla perfezione cinematografica, non a caso le registrazioni in alta definizione delle sue produzioni sono gettonatissime e trasmesse dalle maggiori emittenti mondiali. Il bello è che pur sapendo esattamente quello che vuole, non lo impone, lo spiega, ti lascia la possibilità di svilupparla e via via ti sembra che la sua concezione coincida con la tua. Un vero miracolo. Nella mia carriera ho lavorato con registi del calibro di Franco Zeffirelli: oggi ho la fortuna di fortuna di farlo con Enrico Castiglione, con il quale mi trovo davvero benissimo».

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