Undici in carcere, 5 agli arresti domiciliari ed uno con obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria, 20 gli indagati. Era scattata così, nel febbraio 2014 l’operazione “Bocca di Rosa”, che aveva portato alla luce un giro di prostituzione attivo in città in 6 case di appuntamento. 15 le ragazze costrette a prostituirsi. Ieri, in corte d’Assise, sono arrivate le condanne per 14 imputati.
La sentenza: Basile Antonio, 5 anni e 6 mesi di reclusione; Comandè Carmela, 6 anni e 4 mesi; Ferro Michele, 5 anni e 10 mesi; Mazzullo Lucia, 5 anni; Inuso vincenzo, 5 anni e 2 mesi; Pascale Alfredo, 3 anni; Mallikawathi Edirisingha Arachige, 1 anno e 8 mesi; Gumina Antonino, 2 anni e 8 mesi; Pulejo Giuseppa, 4 anni e 2 mesi; Micale Antonio, 1 anno e 4 mesi; Cisco Giovanni, 2 anni e 6 mesi; Bonsignore Giuseppe, 2 anni e 4 mesi; Oriti Cirino 1 anno e 4 mesi; Di Pietro Fazio Santina, 3 anni.
Per tutti l’accusa è Favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Escluso dai giudici il reato di riduzione in schiavitù a carico di alcuni imputati.
Per alcuni condannati sono state disposte anche pene accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici.
Al tempo, di uno degli arrestati, era stato detto che costringeva a prrostituirsi la propria convivente, madre dei suoi 6 figli, mentalmente debole. Accusa oggi caduta.
Nel 2014, le indagini, coordinate dai sostituti procuratori, della Dda, Maria Pellegrino, e della procura ordinaria, Antonio Carchietti, avevano accertato che il sodalizio criminale aveva come base per la propria attività ben 6 case di appuntamento,collegate tra loro, dislocate in vari punti della città, zona centro e zona sud. In via Roma, Contesse, villaggio Santo, e zone limitrofe, 15 donne, dai 21 ai 50 anni, venivano costrette, approfittando del loro stato di subordinazione psicologica, in quanto tossicodipendenti, ad offrire prestazione sessuali. Con costi variabili dai 50 ai 70 euro l’uno, il totale degli “incontri” quotidiani garantiva all’organizzazione circa 1000 euro al giorno. Le lucciole venivano “prestate” alla casa che ne avesse l’esigenza. Lo “smistamento”, dunque, creava una rete di prostituzione abbastanza vasta. Le indagini dei carabinieri, avviate nell’agosto del 2012, accertarono che, in caso di assenza delle ragazze, talvolta erano le stesse “maitresse” a prostituirsi, per poter in ogni caso soddisfare il cliente del momento.
La clientela veniva reperita anche attraverso la rete internet, con espliciti annunci in vari siti specializzati del settore. Ogni frequentatore veniva avvisato telefonicamente all’arrivo di nuove ragazze. Le conversazioni telefoniche venivano,però, intercettate dagli investigatori dell’Arma. Intercettazioni rese complicate dall’utilizzo di un linguaggio in codice da parte degli indagati e dei clienti.
L’organizzazione del sodalizio era stata ricostruita dagli investigatori, fino ad arrivare a definire la struttura di ognuna delle sei “case di prostituzione” ed il ruolo delle persone coinvolte: c’era la Casa “Perre”, cui erano affiliati Giovanni Cisco, Antonio Gumina e Vincenzo Inuso: 9 le ragazze sfruttate. C’era la Casa “Comandè”, gestita da Carmela Comandè, che aveva affiliati Michele Ferro, Giuseppa Pulejo e Cirino Oriti. 4 le ragazze sfruttate. C’era la Casa “Scucchia”, gestita da un’efficiente 83enne. Vi lavoravano 4 ragazze. C’era Casa “Piazza”, che solitamente ospitava gli incontri di 2 ragazze. C’era casa “Di Pietro”, gestita da Santina Di Pietro Fazio. Anche qui soltanto 2 le prostitute operanti. Infine c’era Casa “Pascale”, “diretta” da una coppia, Alfredo Pascale e Mallikawathi Edirisinga Arachchige, i quali, pur avendo un ruolo meno attivo nell’ambito del sodalizio, contribuivano mettendo a disposizione la propria casa per gli incontri tra 2 ragazze ed i clienti del momento, laddove le altre fossero impossibilitate a farlo.
Due anni dopo sono arrivate le condanne in primo grado.
Hanno difeso gli avvocati: Massimo Marchese, Salvatore Silvestro, Antonello Scordo, Nino Cacìa, Fortunato Strangi, Marinella Ottanà, Carlo Caravella.
Patrizia Vita
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