Ex studentessa del Liceo Classico “Maurolico” di Messina, la ricercatrice Irene Petraroli si trova attualmente a Kyoto, in Giappone, dove sta realizzando uno studio sulla prevenzione disastri, da un punto di vista sociologico. L’abbiamo intercettata e ci siamo fatti spiegare un po’ del suo lavoro, del Giappone e delle differenze tra la vita nella città dello Stretto e nel “lontano” Oriente.
Originaria di Monza, ma cresciuta a Messina, dove si è diplomata al liceo classico “Maurolico” nel 2012, la dottoressa Irene Petraroli ha quindi studiato Scienze Politiche alla Luiss, per poi proseguire la sua formazione alla Oxford University. Nel 2018 è arrivato il Giappone, con il dottorato in Global Environmental Studies all’Università di Kyoto e adesso il post-dottorato, sempre presso lo stesso Ateneo, che si concluderà nel 2024.
Il suo campo è quello della prevenzione dei disastri e il suo lavoro si concentra in territori in cui in realtà il disastro non è ancora avvenuto e ha a che fare con la storia, la sociologia, ma anche le caratteristiche soggettive degli individui. Del progetto che le ha consentito di accedere alla JSPS Fellow dell’Università di Kyoto, e del suo lavoro in generale, ci parla con passione, così come del Giappone, terra in cui intende rimanere, nel lungo periodo, dopo qualche anno ancora a fare avanti e indietro tra l’Europa e l’Estremo Oriente.
Prevenzione dei disastri tra contesto storico, sociale e individuale: di cosa si occupa Irene Petraroli
Attualmente, Irene Petraroli sta lavorando a uno studio di comparazione tra Italia e Giappone e lo scorso dicembre si trovava a Messina per svolgere la parte italiana del progetto. «Sono una studiosa di prevenzione disastri – ci spiega –, mi occupo però della parte sociologica, di comprendere quali sono le sfide e le criticità che un territorio deve affrontare, se ci sono lacune informative da colmare, quali sono i metodi migliori per farlo e come aiutare le persone a essere più preparate».
Il suo lavoro, quindi, si concentra nella fase del pre-disastro e punta a rendere i cittadini più informati su cosa fare in caso di un terremoto, di un maremoto o di un’esondazione. Esamina le caratteristiche storiche e sociali, ma anche quelle individuali: «Nella fase di dottorato mi sono occupata di donne e stranieri (come i turisti, per esempio), che rientrano tra le categorie più vulnerabili in questi casi, insieme ai bambini e agli anziani. Adesso però sto lavorando sulla popolazione in generale. Cerco di capire come la storia di un posto possa influenzare la percezione che la gente ha dei disastri. Metto insieme il contesto storico e l’atteggiamento individuale, i tratti del carattere di una persona che la portano a essere più o meno preparata, più o meno interessata alle informazioni sulla prevenzione».
Scopo della ricerca, sottolinea: «È creare un modello, più o meno replicabile, per capire quali sono le persone che sono meno interessate alla prevenzione o che ne sanno meno di prevenzione e quali sono i motivi che spingono verso un’eventuale mancanza di interesse. L’obiettivo è capire chi sa di meno, perché, e come spingerlo a volerne sapere di più. La mia convinzione è che non è che ci siano persone che non sono interessate a essere preparate. È più probabile che non ci sia in circolazione il tipo di informazione che una persona cerca, o che l’accesso alle informazioni sia troppo difficile, abbia troppi step». Una volta capito qual è il problema, è possibile trovare una soluzione rendendo l’informazione più attraente, più semplice e più vicina al cittadino. In una parola: più accessibile.
Prevenzione disastri, quali differenze tra Italia e Giappone?
Per il suo lavoro Irene Petraroli ha viaggiato molto: «Mi occupo principalmente di posti in cui non c’è stato un disastro di recente, ma in cui ci si aspetta potrebbe arrivare un disastro in futuro e mi chiedo quali sono le informazioni disponibili, se c’è qualche lacuna e come possiamo migliorare la situazione». In particolare, ci dice: «Ho lavorato nel Sud del Giappone, nella regione di Kyūshū, in una città che si chiama Fukuoka. Ho svolto molto del mio lavoro lavoro a Kyoto e a Osaka. In Giappone fin dagli anni ’70 c’è la previsione di questo disastro che dovrebbe avvenire nell’area di Tokyo. Qui in Giappone si lavora molto sulla prevenzione. I bambini fanno esercitazioni e simulazioni dall’asilo fino all’università. Lo stesso vale per gli istituti pubblici, gli hotel, le compagnie, ecc.».
La differenza principale sotto questo punto di vista, tra Giappone e Italia sta proprio qui: «In Italia c’è molta più informazione sulla prevenzione dei disastri di quanto pensassi, però il Giappone è più accessibile, viene materialmente data al cittadino». Per farci comprendere meglio cosa intende, Irene Petraroli ci racconta un po’ della sua esperienza: «Quando mi sono trasferita a Osaka – ci dice –, nello scegliere la casa, come parte del processo mi hanno mostrato una “mappa di rischio”, in cui si vede dove la casa è situata in relazione a un potenziale evento di esondazione. Ci sono diversi livelli di rischio divisi per colore, in maniera che sia ben comprensibile e intuitivo anche per chi non è un esperto del settore». E poi, ancora, molta dell’informazione viene fatta a livello locale. Gruppi di volontari di quartiere distribuiscono volantini e organizzano eventi mirati alla prevenzione dei disastri, ci racconta, così come attività collettive di socializzazione.
Cosa porteresti a Messina dal Giappone e viceversa?
Le differenze culturali tra l’Italia e il Giappone sono tante, lo vediamo da noi anche attraverso quello che filtra dalla cultura pop, tra letteratura, film e cartoni animati. Chiediamo a Irene Petraroli, quindi, come si trova in un Paese così diverso rispetto a quello in cui è cresciuta: «Chiunque venga dall’Occidente rimane affascinato dal Giappone – ci dice Irene Petraroli. Sembra un posto alieno, con un alto livello di ordine, pulizia, rispetto. Poi per il tipo di studi che faccio il Giappone è più accogliente, anche dal punto di vista dei fondi. È molto semplice fare ricerca qua».
Ci sono però luci e ombre: «La cosa negativa – aggiunge – è che a volte è abbastanza isolante. In Giappone non è facilissimo trovare gente che parli inglese, per cui la comunicazione è complessa. Sono gentilissimi, se devono darti una mano a trovare un posto o cose così, però non è facile creare legami, sentirsi parte del gruppo».
Cosa porteresti da Kyoto a Messina, e viceversa? «Una cosa che ho notato e che ammiro del Giappone, e di Kyoto in particolare, che è un po’ la capitale culturale, è la capacità di soffermarsi sulle cose. Qui tutto è un rituale, il prepararsi un tè, l’andare a guardare i ciliegi in fiore, tutto diventa un evento. C’è una grande capacità di concentrarsi su ciò che si sta facendo, di fare tutto con intenzione. È una cosa che potremmo fare anche a Messina, la natura bellissima ce l’abbiamo, le nostre tradizioni le abbiamo, basterebbe avere un atteggiamento diverso, imparare a fermarsi».
E viceversa? «La Sicilia ha un grande cuore – ci dice Irene Petraroli –, è estremamente accogliente, non ti senti mai veramente solo. Fai sempre parte di un gruppo, di una famiglia. Anche il parlare col fruttivendolo, con la gente per strada, è una cosa che qui, in Giappone, non si fa. Ci ho provato qualche volta, magari mentre aspettavo in fila insieme ad altre persone, ma non ho avuto una grande fortuna. Adesso che vivo in questo appartamento da due anni ho socializzato con i miei vicini, ma per almeno un anno non si riusciva a fare più di un saluto».
Tra Kyoto e Messina, la ricerca di Irene Petraroli prosegue e dalla sua storia cerchiamo di trarre qualche spunto, magari qualche lezione che potremmo importare. Perché è bello raccontare di persone che fanno cose interessanti, che vivono mondi diversi, ma ha senso quando se ne trae qualcosa. L’invito quindi è a soffermarci un po’ di più, godere di un tramonto, di quel mare che ci passa accanto ogni giorno e che non guardiamo mai.
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