L’ora è arrivata: chi avrà contatti con minori e li seguirà in una qualsiasi attività, dal 6 aprile, dovrà presentare obbligatoriamente il certificato penale. Sul datore di lavoro ricadrà quest’obbligo: non potrà esimersi dal richiederlo al tribunale per i dipendenti o volontari che lavoreranno con questa fascia di età sensibile. Una precauzione — che ha creato panico e disorientamento per la sua modalità di attuazione — per prevenire episodi di abusi sessuali e pornografia minorile. Lo hanno chiamato anche “certificato antipedofilia” e le associazioni culturali, parrocchie, asili, scuole di danza, tutte le realtà che entrano in contatto con i minori dovranno provvedere, pena una sanzione che può andare dai 10 mila ai 15 mila euro.
Il decreto infatti stabilisce che «il certificato penale deve essere richiesto dal soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies del codice penale», ossia pornografia, prostituzione, adescamento e violenza ai danni dei minori.
Ma sulla strada per la sua effettuazione si presenta un impedimento di non poco conto: se da un lato parroci, presidenti, direttori dovranno richiedere al tribunale il certificato penale del dipendente — obbligo che non può essere aggirato —, dall’altro esiste in Italia una legge, quella sulla privacy, che così verrebbe violata. Insomma, un circolo vizioso in seno alla stessa legislazione; un vero e proprio grattacapo per chi lavora coi minori.
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