Cronaca di un viaggio. Terza parte.
Siamo sull’aliscafo.
Sembra andare tutto bene per il momento: Elisabetta si è innamorata di un ventenne tatuato seduto accanto a me e da perfetta donna ammaliatrice finge che gli scossoni provocati dalle onde la costringano ad urtare il ginocchio di lui, Dario la guarda innervosito, io la assecondo perché il tipo è un vero figo e Francesco gioca con l’i-pad.
Finalmente una voce metallica urla che siamo arrivati a Vulcano, la nostra meta!
Tiro un gran sospiro e mi riempio i polmoni con una bella zaffata di zolfo che sembra schiarirmi le idee sui nuovi ritmi da tenere per le prossime ore. Parola d’ordine: massimo relax.
Una parte del mio cervello è in mode standby. Rilassata si ma so che accadrà qualcosa.
Ancora non mi sono prefigurata nulla di imprevedibile. Penso a disgrazie normali quali annegamenti, meduse, cadute con rotture di denti, ossa o cartilagini, nulla di allarmante, insomma.
Ma la parte del mio cervello succitata ha una strana sensazione e sa che le mie sensazioni non andrebbero mai sottovalutate.
Così, all’improvviso, mentre un cameriere cortesissimo mi mostra quella che sarà la camera più bella in cui io abbia mai alloggiato, sento mio marito pronunciare una parola sottovoce.
Dice “ahia”.
Lo sussurra appena, ma vedo che si contorce, finge di sorridere ma il terrore si dipinge sul suo volto mentre si accarezza energicamente il fianco piegandosi sempre di più fino a raggiungere con il volto le ginocchia.
Ora, io non so spiegarvi bene come sia possibile ma quando si vive in simbiosi con alcuni individui basta guardarli negli occhi per captare la sottilissima differenza che può intercorrere tra un lieve fastidio e la vera e propria catastrofe e mio marito, con quel verso ha fatto scattare l’allarme pronto soccorso.
Liquido velocemente ma con garbo, il cameriere, parcheggio i bambini davanti alla TV, mi giro di scatto e mentre sento i nervi del collo che si accavallano, una smorfia di dolore contrae la mia espressione già disperata.
Lotto contro il torcicollo e chiedo a Dario: <<che succede?!?>>.
A quel punto, l’annuncio della fine.
Mi guarda, allarga le braccia e sentenzia: << credo di avere una colica renale>>.
Sarebbe stato meglio mi avesse detto <<ho una relazione con tua sorella>>.
Quello glielo avrei perdonato.
Sgrano gli occhi: <<ma in che senso credi di avere una colica renale? Cioè, è una diagnosi precisa? Hai esaminato il tipo di dolore? Lo ritieni trafittivo? O pulsante? Dicono che sia paragonabile al parto. Credi davvero di poter paragonare questo dolore alle 14 ore di contrazioni che ho patito in ospedale quando è nato Francesco? Ti senti come se qualcuno ti prendesse a forti martellate sulla schiena? Come se ti stessero rompendo le ossa del bacino? Come se ti strappassero le viscere a morsi? Come se un enorme testa ti stesse sbucando fuori…>>.
Ok smetto.
Non mi ascolta, dice di avere la nausea.
Mi aggiro per la stanza nervosa e , come sempre accade quando l’ansia mi divora, parlo a me stessa.
“Colica renale. Passo. Abbiamo i mezzi per sconfiggerla. Ora ci attrezzeremo per uccidere la colica renale e ci godremo la vacanza. Passo. Serve una farmacia capo. Passo. Ricorda di farti venire al più presto una colica renale per paragonarla al dolore del parto. Passo”.
Intanto svuoto la bottiglia che ho trovato nel frigo bar e la riempio di acqua bollente. Intimo a Dario di sdraiarsi e sistemo la bottiglia dietro la sua schiena.
Scorgo il suo sguardo offeso e lo precedo <<so che sei un medico eccelso ma stai male e quando sta male qualcuno in questa famiglia, il medico divento io! Ora zitto e fai quello che ti dico! Melamangioquestacolicadimmmmer… stai tranquillo>>.
Mentre madida di sudore mi addentro nel paese alla ricerca di un maledetto Toradol, con due nani al seguito che cercano di lasciarmi le mani per farsi investire, recito nella mente la preghiera di ogni sera “Signore Ti prego fai stare male me ma non la mia famiglia”. Di solito funziona. Io sto sempre uno schifo. Speriamo faccia effetto anche stavolta.
Intanto ho trovato la farmacia e porto in albergo il bottino.
Dario è riverso sul letto dice di stare meglio, ma ha una pessima cera.
Lo accarezzo e gli dico <<Prenditi il toradol. Adesso. O ti uccido. E prendilo sublinguale.>>.
<<Ma non hai preso le siringhe?>>.
Lo guardo molto innervosita <<E che le prendo a fare? Io certo non ti farei mai un’intramuscolo! Piuttosto un’operazione a cuore aperto ma la puntura mai!!!>>.
Mi guarda, mette la bocca in una posizione sporgente abbassando gli angoli e mi guarda con rassegnazione <<Vittoria, io sarei in grado di farmi un’intramuscolo anche da solo, ti ricordo.>>.
Uffaaaaaaa! Ma quante polemiche!
Non ho comprato le siringhe. Fosse solo questo! Ancora deve svuotare i borsoni.
E quando capirà che non gli ho portato leinfraditoilpigiamailcostumelamagliettaegliocchiali? Cosa farà? Una tragedia?
Lo calmo. <<Amore rilassati. Tu prenditi l’antidolorifico. Appena stai un po’ meglio ce ne torniamo a Messina e ricorderemo per sempre questa splendida vacanza. Del resto sai che io sono felice di tornare a casa. Ho tutto in ordine!>>.
Mi guarda e ride.
Francesco ci osserva abbracciati e tira fuori il nostro motto di sempre: <<Papà, stai tranquillo, quando c’è un problema lo risolve mamma!>>.
To be continued….
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