Sarà capitato un po’ a tutti di beccare sulla prima rete Unomattina, il programma della Rai che racconta quello che succede in Italia, con uno sguardo sempre attento all’attualità e all’innovazione. Non poteva quindi mancare all’appello la nuova app sviluppata dall’Università di Messina che permette di “vedere” com’erano in origine i Bronzi di Riace.
«Un tema molto affascinante quello che riguarda i Bronzi di Riace»: ha detto il giornalista Marco Frittella, conduttore della trasmissione. A raccontare il nuovo progetto ci sono l’archeologo ed esperto numismatico Daniele Castrizio in diretta dal Museo di Reggio Calabria, in cui sono custoditi i due Bronzi, e il Rettore dell’Università di Messina Salvatore Cuzzocrea.
«Attraverso questa app – ha detto Cuzzocrea ai microfoni di Unomattina – vengono ricostruiti come erano in origine i Bronzi di Riace, per consentire l’approfondimento non solo agli studiosi più illustri ma anche a coloro che potranno avere a disposizione l’applicazione. Un progetto molto ambizioso».
I Bronzi biondi di Riace
I Bronzi di Riace sono stati ritrovati nel 1976, che «raccontano – dice il giornalista Paolo Digiannatonio – una grande civiltà e che la prossima estate festeggeranno i loro 50 anni riemersi». Adesso, per aggiungere un altro tassello a una delle storie più affascinanti e infinite del patrimonio artistico italiano, è stata sviluppata un’applicazione.
Come vi abbiamo già raccontato, l’app nata da una sinergia fra UniMe e il Museo di Reggio Calabria fa vedere che alle origini i Bronzi di Riace erano biondi. «Biondì, sì. La verità – dice il professore Castrizio a Unomattina – è che noi siamo nani sulle spalle di giganti. Ci siamo potuti avvalere di studi che hanno dimostrato che la fusione del bronzo quando i Bronzi sono stati realizzati avevano un colore d’oro. Così abbiamo iniziato a studiare e a vedere che i Bronzi avevano già i colori».
Ma insieme ai colori, l’app fa vedere che i Bronzi avevano scudo e lancia, probabilmente come la tradizione dei soldati imponeva. Elementi, tuttavia, che non sono state ritrovati. «Abbiamo realizzato – dice ancora il prof. Castrizio – una macchina del tempo. È un tentativo di andare avanti nell’archeologia pubblica e che può essere utilizzata per tutte le statue».
A questo link la puntata di Unomattina.
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