In una lunga nota l’assessore comunale alla Cultura, Sergio Todesco, illustra la sua idea per realizzare un museo, aperto tutto l’anno, che possa ospitare Vara e Giganti.
Questo il testo:
“Anche quest’anno si svolgerà, in un tripudio di folla, la tradizionale processione della Vara. Al di là dell’andamento da kermesse televisiva che l’organizzazione della festa pare avere ormai assunto da qualche tempo, forse per adeguarsi alla cultura fininvestizzata nella quale siamo oggi immersi, mi sembra che sempre più evidente si manifesti lo scollamento tra chi tale festa vive e chi ad essa assiste, alla stregua di uno spettacolo mondano cui è bello e utile presenziare.
Cosa si può scorgere in queste occasioni nelle facce dei messinesi “spettatori”? Innanzitutto la curiosità verso un evento che in pari misura li attrae ma del quale non riescono più a sentirsi protagonisti. E poi, a catena, tutta la gamma di atteggiamenti che tali due contrapposte condizioni psicologiche comportano: in negativo, un comportamento epidermico e distratto, da bravi turisti alla ricerca di un facile folklore da fagocitare in fretta con spirito onnivoro; e insieme una sorta di invidia verso quelli che appaiono essere gli attori della festa (il clero, la “ciurma”, i fedeli biancovestiti che partecipano attivamente) e la parallela scontentezza per il fatto di scoprirsi fruitori passivi di un rito da quale essi rimangono sostanzialmente esclusi; in positivo, una certa qual commozione, spesso mascherata da indifferenza, derivante dalla consapevolezza che un evento rituale di tale imponenza, comunque esso si articoli, segna indelebilmente la comunità costituendone come la carta d’identità. In più, una sorta di “nostalgia delle origini” che anche ai più ottusi e distratti cittadini instilla a volte (almeno spero) qualche dubbio riguardo alle magnifiche sorti e progressive che una classe dirigente priva di qualunque sentimento del tempo ha a lungo (per lo meno negli ultimi quarant’anni … e speriamo di aver girato oggi pagina!) apparecchiato in questa città.
Tra gli elementi che maggiormente hanno concorso a delineare l’identità della nostra città, va annoverato come peculiare l’aspetto connesso alla fruizione popolare del sacro, che trova a Messina un’ampia gamma di rappresentazioni. Tralasciando altre pur importanti emergenze festive, è indubbio che la più rilevante di esse rimanga quella concernente l’Assunzione.
La morte di Maria Vergine viene passata sotto silenzio in tutti gli scritti neotestamentari. Nonostante tale vuoto di informazioni, o forse proprio in virtù di esso, a partire dal II secolo si diffusero in Medio Oriente numerosissime versioni del transitus Mariae, conosciuto anche come koìmesis toù theothòkou o dormitio virginis. Pur essendo rimaste nell’ambito degli scritti apocrifi, tali cronache della morte, e della successiva assunzione in cielo, della Vergine divennero a tal punto, nel giro di qualche secolo, patrimonio comune all’intera cultura euro-mediterranea e medio-orientale che intorno all’anno 600 l’Imperatore d’Oriente Maurizio istituì la festività del 15 agosto per commemorare l’evento, dando risalto più che alla dipartita di Maria Vergine da questo mondo, alla sua assunzione e definitiva glorificazione. Il dogma dell’Assunzione di Maria fu dichiarato articolo di fede da papa Pio XII nel 1950, ma già da parecchi secoli, per lo meno dal Medioevo in poi, le culture popolari e tradizionali avevano provveduto a sancire con la prassi cultuale e con svariate pratiche celebrative la realtà del sacro evento, almeno sotto il profilo ontologico e simbolico se non sotto quello storico.
A partire dal XVI secolo, ma forse anche in precedenza, il ciclo festivo ferragostano a Messina è stato contrassegnato dalla messa in opera e dalla fruizione rituale di un certo numero di apparati mobili, condotti in processione o fatti sfilare in giorni determinati con grande concorso di popolo e secondo percorsi stabiliti. Il grande apprezzamento da sempre manifestato in ambito subalterno nei confronti di tali machine festive, e al contempo le notizie storiche disponibili sulla loro origine, sulla scorta di fonti d’archivio in verità alquanto scarse, ma dalle quali trapela con forte attendibilità la matrice colta della loro ideazione, rendono tali manufatti elementi significativi di una densa zona di confine in cui è possibile cogliere in tutta la sua complessità l’articolazione delle dinamiche storicamente determinatesi tra forme di spettacolo colto e popolare in questa città.
La Vara di Messina è un enorme apparato rituale mobile (machina, secondo il lessico medievale) di forma piramidale che illustra plasticamente il momento dell’assunzione in cielo della Vergine Maria. Nella prima delle piattaforme che compongono la sua struttura, collocate su di un ciclopico ceppo munito di slitte, trovano infatti posto le raffigurazioni della Vergine morta circondata dagli Apostoli, secondo l’iconografia di origine Bizantina della dormitio virginis, mutuata dalle svariate redazioni apocrife del transitus Mariae, e salendo verso l’alto una rappresentazione dei sette cieli che l’Alma Maria doveva attraversare per giungere all’Empireo; questi cieli sono tutti sintetizzati dalla cortina delle nuvole che, dipartendosi dalla base della machina a mo’ di baldacchino della “Bara”, si innalzano circondate dal sole e dalla luna, concepiti come nel sistema tolemaico; ancora più su, in una terza piattaforma, è collocato un globo celeste con stelle dorate, raffiguranti forse le stelle fisse, e infine alla sommità, dopo l’ennesima cortina di nubi costellata come le altre da schiere di angeli, si erge l’effigie di Gesù Cristo che tiene sulla mano destra l’Alma Mater, l’anima della Vergine assunta in cielo.
All’interno della Vara, la struttura metallica campaniforme che ne costituisce l’ossatura ospita una serie di ingranaggi i quali, azionati manualmente da persone a ciò addette, determinano il movimento rotatorio, in orizzontale e in verticale, di tutte le figure e i personaggi, un tempo viventi ora statue, che affollano questa grande piramide rituale. Questo ciclopico apparato mobile, sorta di teatro semovente, percorre nel giorno di mezz’agosto le vie della città trainato da migliaia di fedeli scalzi e biancovestiti in corsa che al grido unanime di Viva Maria ! intendono così rievocare ritualmente al contempo la morte e assunzione in cielo della Vergine e la sua apoteosi quale protettrice di Messina.
Le origini della Vara, secondo le fonti più accreditate, risalgono al XVI secolo o addirittura, secondo alcuni storici, al Duecento, e tuttavia le questioni relative alla paternità della ideazione della grande machina e alla sua datazione sono ancora oggi nodi critici irrisolti.
Com’è noto, la prima cronaca che parli di una machina trionfale assimilabile alla Vara è quella di Colagiacomo d’Alibrandi il quale, nel descrivere i festeggiamenti e l’accoglienza tributati dal Senato e dal popolo messinesi all’Imperatore Carlo V, transitato nel 1535 per Messina dopo la vittoriosa spedizione contro Tunisi, si sofferma sul carro trionfale allestito in onore dell’Imperatore, nel quale carro la distribuzione dei personaggi e dei simboli cosmici è sostanzialmente analoga a quella della Vara. Quest’ultima dunque potrebbe essere preesistita al carro trionfale di Carlo V ed essere stata riadattata per l’occasione: l’Imperatore giunse infatti a Messina nel mese di ottobre. Viceversa qualche studioso, come Rodo Santoro, ha avanzato l’ipotesi che la Vara derivi dal carro trionfale del 1535, per successiva trasformazione.
Al di là di tali problemi, che interessano soprattutto gli storici, della Vara è importante mettere in luce la grande carica emozionale che il suo trascinamento determina nella massa di fedeli che ogni anno si raccoglie intorno a questo simulacro di dimensioni eccessive, barocche, che porta in giro per la città, svettante verso il cielo, la sequela di un mistero cosmico colto nelle sue molteplici ierofanie. La Vara avanza mostrandosi. La sua peculiare caratteristica è quella di essere un asse del mondo in movimento; essa cioè consente, a chi al suo seguito compie il percorso processionale, di muoversi guadagnando nuovi spazi, e purtuttavia rimanendo al centro del proprio universo. Tale caratteristica di axis mundi, cui vengono al contempo demandate funzioni di domesticazione rituale del territorio, ha storicamente determinato, in aree rientranti nell’orbita culturale di Messina, l’elaborazione di analoghe macchine trionfali che sono state certamente modellate sull’archetipo messinese, come ad esempio la Vara di Randazzo e la cosiddetta Varia di Palmi.
Carro sacro (come lo definì l’etnografo Raffaele Corso) di singolare peculiarità, la Vara ha sempre colpito la fantasia di quanti, viaggiatori italiani o stranieri, si siano nel corso degli ultimi tre secoli volti a fissare lo sguardo sulla città dello stretto e sulle sue tradizioni.
Sulle origini dei due giganti Mata e Grifone sono state avanzate numerose ipotesi, alcune suggestive ma destinate a rimanere tali in assenza di puntuali riscontri storici e d’archivio. Secondo l’erudito La Corte Cailler “pel buon popolo messinese sono, da secoli, i fondatori della città ed anche i geni tutelari della stessa, come scrisse il Pitrè … Ed effettivamente nacquero in assai lontana età i due colossi, poiché durante i rifacimenti di oggi (scriveva La Corte nel 1926) sul petto del Gigante si sono notati tre medaglioni, che prima nessuno aveva osservato, uno dei quali risale certamente al XIII secolo mentre gli altri due sono dei secoli susseguenti. La Gigantessa venne rifatta completamente dopo il terremoto del 1783 (dallo scultore Santi Siracusa, n.d.c.), essendo andata distrutta l’antica, ma la statua di Grifone è certamente della seconda metà del secolo XVI, quando la costruì Martino Montanini, fiorentino (1560), con la testa e le braccia mobili, che nel 1581 vennero fissate, e forse rifatte, sul disegno precedente, da Andrea Calamecca da Carrara”. I Giganti, che come la Vara sono stati negli anni ’80 sottoposti a restauro a cura dell’Amministrazione Regionale dei Beni Culturali, hanno avuto anch’essi una storia movimentata. Si sa con certezza, ad esempio, che solo nel 1723 essi presero l’attuale posizione equestre, mentre in passato non avevano forma stabile ma venivano di volta in volta “apparecchiati” per l’occasione e, dopo il trasporto, spogliati e smontati nelle loro parti essenziali, cioè le statue lignee di Mata e Grifone e le intelaiature dei cavalli. Tale tipologia originaria, ancora presente nella configurazione ottocentesca dei due colossi fino al distruttivo sisma del 1908, li rende maggiormente assimilabili ad altre coppie di giganti concepiti in aree non distanti da Messina e forse modellati su di essi, ad esempio ai Giganti di Mistretta, nonché a quelli di Palmi e di Seminara in Calabria. L’ideologia complessiva di questi gruppi statuari può essere per un verso ricondotta a esigenze di patriottismo municipalistico, assai avvertite nel ’500 allorquando le città siciliane facevano a gara per dimostrare la propria antichità attraverso l’esibizione di ciclopici resti ossei, rinvenuti durante scavi e attribuiti a ipotetici giganti, primi abitatori del sito; d’altro canto le modalità di messa in opera e le dinamiche di fruizione, squisitamente popolari, delle due statue equestri mobili, rivelano senza ombra di dubbio come anche questa particolarissima machina festiva abbia subìto nel corso dei secoli una serie di trasformazioni ideologiche che ne hanno in parte modificato il senso. Ciò che di antropologicamente rilevante rimane della tradizione dei due giganti è il loro uso processionale (oggi in verità alquanto immiserito da incongrui sistemi di trascinamento e da contesti folkloristici di notevole effetto kitsch) che ne lascia trapelare, quale che ne sia stata l’origine, la successiva plasmazione popolare determinatasi probabilmente a partire dalla fine del XVIII o dagli inizi del XIX secolo.
Non si può parlare dei giganti messinesi senza richiamare alla memoria l’ultima machina del ciclo di mezzagosto, ossia il Cammello, che delle due statue costituiva una sorta di appendice. Esso era costituito “da una leggera ossatura di legno sulla quale si adattava una pelle completa di dromedario. Sotto l’ossatura erano i due facchini, le gambe dei quali – visibili – erano ricoperti dalla pelle predetta. Tra i due portatori era legato un sacco dove si riponeva il ricavato della visita ai rioni della città. Attorno al Cammello erano un suonatore di cornamusa ed altri fanciulli mascherati, come ce li presentano antiche stampe. Costoro andavano, dice il Buonfiglio, in maschera giuocando e bagordando, ed il giuoco ed il bagordo – chiarisce Giuseppe Pitrè – era una successione di movimenti, di smorfie, di dinoccolamenti, di corse, di salti che il Cammello – o meglio gli uomini camuffati da cammello – andava facendo per le piazze e per le strade” (G. La Corte Cailler). Sulle origini di questa usanza sono state nel tempo avanzate alcune ipotesi. Giuseppe Buonfiglio Costanzo, cronista secentesco, sostenne che si trattasse di una popolare celebrazione “della vittoria ottenuta dal Conte Ruggero, il quale fugati i Mori, entrò trionfalmente a Messina con i suoi soldati bagordando, e coi cammelli barbareschi carichi di spoglie”. “Scena abissina”, la chiamò Pitrè, con il consueto acume ponendola in relazione con l’analoga pantomima del Serpente di Butera, ‘u sirpintazzu che sfila per le strade del paese durante la festa di S. Rocco. Altro cammello rituale lo si incontra ancora oggi nella festa di Sant’Onofrio a Casalvecchio Siculo (come pure, in passato, in altri centri siciliani e calabresi). Il ruolo di tali particolari figurazioni, al di là della funzione spettacolare e vagamente totemica di cui esse sono investite, rinvia a una gestione squisitamente popolare della festa, attraverso la messa in opera di rituali mediante i quali è possibile lecitamente procedere a una giocosa strategia espropriativa. La strana effigie del cammello insomma si configura, nelle sue modalità fruitive tradizionali, come machina esemplare atta a porre in essere rituali di disordine controllato, aventi come punto di forza la temporanea ridistribuzione dei ruoli e dei beni che, semel in anno, possono essere assegnati in modo differente che nella realtà ordinaria.
Spacciati a lungo per oggetti pittoreschi, buoni come merce folkloristica da fare consumare a un pubblico di turisti annoiati o distratti, la Vara, i Giganti e il Cammello si rivelano in realtà manufatti pregnanti attraverso i quali è possibile misurare in tutto il loro spessore alcune fondamentali strategie di messa in opera cerimoniale di cui la comunità messinese ha fatto uso nel corso della sua secolare storia per conferire senso al proprio universo.
Una rivisitazione delle vicende che hanno segnato l’esistenza di questi importanti emblemi cittadini può costituire una preziosa occasione di esercizio della memoria storica, riscattando le machine festive messinesi dalla patente di lievità e di insignificanza ingiustamente loro attribuita dai cultori della histoire événementielle, se è vero, come sosteneva Ernesto de Martino, che “non tutte le cose che abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo, ed in ogni caso il lieve ed il grave non appartengono alle cose in sé, ma sono sempre di nuovo ridistribuibili nella trama della realtà in funzione di certi problemi presenti che stimolano a scegliere il passato importante”.
In una tale prospettiva, è possibile che sia oggi giunta a maturazione la consapevolezza della grande valenza culturale di un “Museo delle Machine festive” in cui custodire ed esporre tutti i cimeli concernenti la Vara e i Giganti. Ritengo che tale proposta, che aspira in primo luogo a essere un esercizio di educazione all’identità, rivolta ai cittadini messinesi di qualunque livello e fascia d’età, avrebbe senz’altro, per lo meno, il merito di fornire a quanti non si siano ancora rassegnati all’opacità che oggi contraddistingue la città un quadro di riferimento alto, non banale, utile in definitiva a stimolare la pratica della memoria e il gusto dell’utopia.
Una delle ipotesi di allocazione della struttura prevede l’utilizzo della cavea naturale che risulterebbe dal parziale sbancamento della “villetta” di Piazza Castronovo, ove dunque la Vara potrebbe rimanere montata tutto l’anno, offerta alla fruizione dei messinesi e dei turisti. Altra ipotesi progettuale, alternativa alla prima, è l’utilizzo dell’attuale mercato coperto del Muricello, con una spettacolare esposizione dei Colossi lungo il prospetto di Via Garibaldi, trasformato in megavetrina, e l’accesso al Museo dalla retrostante Piazza. Terza ipotesi, da praticare laddove le prime due risultassero difficilmente attuabili, è quella che prevede la rifunzionalizzazione di uno dei grandi padiglioni fieristici. In questo caso però, a causa dell’esistenza della rete tranviaria, i Giganti storici verrebbero definitivamente musealizzati e se ne costruirebbe una copia in vetroresina da far sfilare annualmente (magari riportandoli alla – più bella – configurazione ottocentesca), mentre per la Vara si continuerebbe ad impiegare quella “storica”, montata e smontata ogni anno come avviene oggi, realizzandone una copia fedele in vetroresina da esporre permanentemente nel Museo. In ognuna delle soluzioni ipotizzate, è prevista la realizzazione di rampe elicoidali che consentiranno ai visitatori di salire alle diverse quote della Vara e dei Giganti, potendo così guardare da qualche metro di distanza la statua dell’Assunta o la testa calamecchiana di Grifone.
I materiali e i corredi che andrebbero esposti e fatti fruire sono manufatti di varia natura e consistenza risalenti agli ultimi tre secoli e documentanti il ciclo festivo del mezz’agosto messinese: attrezzature e parti dimesse della Vara, come una mantovana lignea dismessa del cippo risalente al 1902, angioletti e putti degli anni ’50, la grande ruota dentata e la settecentesca campana, i due modellini della Vara (uno risalente al 1756 dovuto al plasticatore Paolo Cara e uno novecentesco pure realizzato da Cascio Fiorello) e quello dei Giganti prodotto nel 1931 dalla bottega artigiana di Pietro Pettinato, alcuni frammenti lignei settecenteschi dei due Giganti sopravvissuti al terremoto del 1908, la splendida testa in gesso della gigantessa Mata realizzata da Michele Amoroso nel 1951 etc.; in tale sede potrebbero altresì essere custoditi materiali provenienti da archivi pubblici e privati, dalle carte possedute dal Comune (Archivio Storico Comunale, appunti di Gaetano La Corte Cailler etc.) e dalla Curia (documenti cinquecenteschi della Maramma del Duomo) alla documentazione dell’attività delle fabbricerie artigianali otto e novecentesche impegnate nella costruzione, nell’allestimento e nella manutenzione di machine e apparati festivi, effimeri e non; materiale iconografico di vario genere: fotografie, disegni, stampe, dipinti etc., concernenti la Vara, i Giganti, il Cammello, le feste e gli apparati cinque-ottocenteschi e i loro contesti; un archivio audiovisivo, comprendente filmati e audionastri sulla festa, sulle storie di vita dei fedeli, dei portatori, della ciurma nonché documenti di varia natura sulla cultura tradizionale messinese; una biblioteca specializzata sulle machine festive sotto i molteplici profili storico-artistico, tecnologico, socio-economico, antropologico e teatrale.
Il progetto, finanziabile attraverso fondi regionali e soprattutto europei, non disdegnando il coinvolgimento di sponsor privati, renderebbe possibile la fruizione delle gloriose machine festive messinesi nell’intero arco dell’anno e non in un periodo ristretto di esso come oggi avviene. Tale progetto, più volte in passato da me proposto come l’unico in grado di assicurare la corretta conservazione e pubblica fruizione di questi beni, sortirebbe altresì, ove realizzato, un esito di grande spessore culturale, atteso il ruolo di assoluta preminenza svolto nei secoli passati dalla città di Messina quale detentrice del maggior numero di machine e apparati festivi in Italia, contribuendo parimenti a un miglioramento d’immagine della città in un momento storico in cui si avverte in tutta Europa l’esigenza di ancorare gran parte dell’economia e delle dinamiche culturali a processi di valorizzazione delle “piccole patrie” o di elementi pregnanti dell’identità storica locale.
Il progetto appare congruo anche sotto il profilo di una nuova e più meditata strategia di turismo culturale in linea con i parametri europei e con la giusta esigenza di contemperare le istanze di sviluppo sostenibile e quelle relative alla valorizzazione dei beni culturali che in qualche modo si siano storicamente configurati come segni dell’identità civica. In aggiunta a ciò, è lecito prevedere che l’istituzione di un tale Museo avrebbe come diretta conseguenza la creazione di numerosi, non improduttivi, posti di lavoro, oltre a un generale incremento delle attività di tipo turistico-culturale più o meno direttamente derivanti da essa. Se facciamo un po’ di conti, scopriamo che l’agosto messinese attira in città la presenza e l’interesse di oltre 200.000 persone. Aggiungiamoci le circa 100.000 che affollano la nostra città sbarcando dalle navi da crociera tra maggio e ottobre. Non pensate che un museo come quello qui proposto sarebbe in grado di intercettare tale potenziale bacino di utenza? E quanto porterebbero nelle casse comunali 300.000 visitatori paganti, ad un costo minimo di 2 euro?
Forse il risanamento di Messina può essere pensato anche in tale prospettiva!
Si potrebbero inoltre programmare rapporti di gemellaggio con municipalità italiane ed europee che hanno espresso nel corso della loro storia la “messa in opera” cerimoniale e rituale di analoghi manufatti: menziono in questa sede, a titolo esemplificativo e non esaustivo, in Italia i centri di Palermo (Carro di Santa Rosalia), Randazzo (Vara dell’Assunta), Palmi (“Varia”), Nola (Gigli), Viterbo (Carro di Santa Rosa), e in Europa i numerosissimi centri in Spagna, Francia, Germania, Olanda, che hanno elaborato dal XV secolo in poi le figure tutelari di Santoni, Giganti e simili, a tutt’oggi valutati e apprezzati come pregnanti emblemi comunitari, come attestano le prime due edizioni del Raduno Europeo dei Giganti tenutesi negli ultimi anni a Matadepera (Spagna) e a Steenvoorde (Francia), con il concorso di alcune centinaia di municipalità di tutta Europa.
Riusciranno Messina, la sua classe politica e imprenditoriale ma anche e soprattutto la cittadinanza intiera, a imbroccare decisamente la via di un rinnovato esercizio della memoria? E’ difficile oggi poterlo prevedere. Occorrerebbe che si comprendesse che un territorio così storicamente pregnante come il nostro non può essere considerato solo realtà mercantile ma a volte, anche, risorsa umana e antropologica, nonché opportunità di pianificare nuove e più gratificanti forme di convivenza comunitaria. La storia mostra che un popolo vive e lavora (e consuma) meglio e più intensamente quando tenga aperti dinanzi a sé senso di appartenenza e prospettive d’identità.
Si fa oggi un gran parlare del nostro andare incontro all’Europa partecipando in prima persona a processi di globalizzazione la cui fantasmagorica perentorietà ci attrae e ci intimorisce al contempo. Io credo che oggi più che mai occorra rimanere bene fondati nelle proprie storie culturali; è infatti assai probabile che solo così si possa essere in grado di temperare la propria identità nel crogiolo multiculturale in cui ci troviamo già immersi, senza il rischio di smarrirla del tutto.
Anche su tali “promesse e minacce” che stanno dietro il nostro angolo l’ipotesi di museo che qui ho provato a illustrare ci interpella fortemente.
Dite che sto sognando, miei pazienti amici? Edgar Allan Poe ha scritto che chi sogna di giorno scorge cose che sfuggono a chi sogna solo di notte. Allora il punto non è se sogno o son desto, ma se convinco tutta intera la nostra bella comunità a sognare con me. Che ne dici, Renato? Se la sente secondo te Messina di “iniziare a pensare” un’opera che, se realizzata, contribuirebbe potentemente a ridisegnare la sua identità, oggi alquanto languente? Per convincerci tutti, aggiungo solo questo: tutte le amministrazioni precedenti non hanno avuto il coraggio di “sognare” tanto. Non basta? E poi, il P.O.R. 2014-2020 è vicino… Basta volerlo veramente. E infine, non è forse giunto il momento della verità? di capire cioè se questa città è ancora in una certa misura interessata a custodire le proprie memorie come beni culturali valutabili in termini di risorse, di sviluppo virtuoso, ovvero se si sia definitivamente affermata la prospettiva secondo la quale tali beni vadano considerati non altro che una particolare categoria di merci?”
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