E’ triste assistere al crepuscolo delle ideologie

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Di morte delle ideologie si discuteva già negli anni ’60. Certo ancora oggi la nostra Repubblica si fonda su valori riconducibili alle irrinunciabili istanze cristiano-sociali, socialiste, liberali.
Peraltro, la tenuta della nostra Costituzione, nel sentire generale, ha ricevuto conferma, al netto delle simpatie e antipatie nei confronti dell’ex Presidente del Consiglio, dall’esito dell’ultimo referendum.
Tuttavia, la traduzione di principi in c.d. formule organizzatorie è sempre ardua. Nel nostro Paese appaiono ancora germogliare scuole di pensiero capaci di generare e rigenerare speranze e orizzonti.

La prova dei fatti storicamente rilevanti finisce per rappresentare lo scoglio su cui si infrangono illusioni e sogni. I progetti non si declinano in programmi e i programmi (quando seriamente partoriti) si esauriscono in parole.

Restando in tema di categorie generali, senza sottacere estremismi, ci eravamo abituati ad un sostanziale bipolarismo. Centro destra e centro sinistra (forse destro-centro e sinistra-centro) esprimevano – sia pure in sintesi – un modo di competere e di alternarsi (sebbene un diffuso animus proporzionalista fosse variegatamente latente).
Restava in penombra un’idea anarchica.
Negli spiriti anarchici autentici vi sono spunti di indubbio fascino intellettuale. Con incanto più che con sgomento leggo le parole aforistiche di Pierre-Joseph Proudhon: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, ad ogni azione, ad ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto. Vuol dire essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato, e, alla minima resistenza, alla prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, cacciato, deriso, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta, schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell’interesse generale. Ecco il governo, ecco la giustizia, ecco la sua morale.” A tutto vi è un limite.

Il propompente ingresso del M5S ha scardinato un sistema che al massimo era aduso al capriccio dello “sparigliamento”. Francamente temo il fascio così come temo lo sfascio.
Temo le derive, temo gli umori di piazza, temo i forconi, temo i tribunali rivoluzionari del popolo, temo i forcaioli, temo le guerre civili.
Non bisogna frapporre argine alla protesta con l’olio di ricino ma neppure assecondare istinti perversi da caccia alle streghe e cacciata violenta di tutti coloro che rappresentano Istituzioni.
I poteri (nella illuministica versione tripatita) sono ancora oggi di per sè una necessità. L’esercizio del potere può essere o meno lecitamente giudicato.
L’Italia rischia di consegnarsi alla barbarie di orde che senza discernimento alcuno stanno demonizzando non gli individui ma le categorie.
Vengono così minate le fondamenta della nostra unità e della nostra identità.

E’ successo che un malsano e balzano tentativo di supplenza – da Tangentopoli in poi – si è imbastardito a tal punto che la sfiducia ha bypassato le degenerazioni colpendo il genere.
La sfiducia ormai si esprime nei confronti non di questa o quella espressione di questa o quella area , di questa o di quella esperienza, di questo o di quel potere, ma nei confronti indistintamente di politica, magistratura, burocrazia, sindacato, stampa.

Non sorprende e non ci piace che nelle ultime analisi emerge un dato inquietante: due italiani su tre non si fidano del sistema giudiziario; un italiano su due non si fida dei Giudici.

Signori, il 69 per cento degli italiani pensa che “settori della magistratura perseguano obiettivi politici”.
Signori, le tessere dei sindacali si vanno sgretolando.
Signori, il lavoro dei media è guardato con sospetto.

In Italia non contano più le partite che si giocano nei campi. Le partite si giocano sugli spalti.
E, se le tifoserie con i loro scontri diventano il teatro di trame senza sceneggiatura, siamo destinati alla disfatta.

Non so se c’è rimedio ma sono disposto ad abdicare – almeno momentaneamente – alla caratterizzazione di partiti e poli pur di sconfiggere il populismo plebiscitario che si annida – consapevolmente o inconsapevolmente – nella dittatura dei migliori interpreti del peggio che si può raccogliere e esaltare nei social.

Al tempo di Facebook,lo scontro è governo della responsabilità contro irresponsabilità del caos. Ciò vale a Messina, a Palermo, a Roma.
In vista delle prossime competizioni amministrative, regionali, politiche si mediti.

Ovviamente, operazione becera sarebbe unirsi senza uno spartito efficace, una orchestra coesa, un direttore all’altezza.

Emilio Fragale

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