Sui beni comuni c’è chi ripensa la democrazia a Messina.

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pinelli-sgomberoVogliono far riflettere i messinesi sull’importanza dei Beni comuni e sul “ripensare” la democrazia a messina. Sono Gianfranco Ferraro, Luciano Marabello, Emilio Raimondi e Gino Sturniolo che hanno voluto rendere pubblico il loro pensiero dal titolo. “Messina Forma Di Vita In Comune”: “Ripensare la democrazia a Messina. Mai come in questi ultimi venti anni, la “forma” della nostra città è andata cambiando nel disprezzo delle più elementari regole di scelta democratica. Chi ha chiesto ai messinesi il permesso di chiudere l’accesso al porto e di sottrarre di fatto alla città il suo rapporto conil mare? E quando è stato chiesto a messinesi di rendere progressivamente privato l’attraversamento dello Stretto? Chi li ha interpellati sul destino del Teatro in Fiera e chi ha chiesto loro di poter decidere, direttamente, il destino della cittadella fieristica? Chi ha chiesto il loro parere sulla vocazione e sulle ipotesi di trasformazioni speculative del quartiere storico del Tirone? Chi ha chiesto ai messinesi, in una parola, di poter decidere che città volevano? Ci poniamo oggi una semplice domanda: come reagire alla sistematica espropriazione di luoghi di democrazia, di scelta, come reagire cioè all’espropriazione che Messina vive ormai da decenni? E come rendere quindi possibili, praticabili delle “scelte” consapevoli e

partecipate sulla forma della città da parte dei messinesi? Scelte e decisioni dirette in cui cioè la città, in tutte le sue componenti – la città dunque dei molti e non dei pochi -, possa entrare e dire la propria su ogni metro quadrato pubblico e su ogni proiezione pubblica di edifici e spazi pubblici che la compongono, così come su ogni attività che la
riguarda. Ripensare l’ambiente urbano a Messina implica innanzitutto allora un radicale ripensamento del rapporto tra lo spazio democratico e l’uso in comune delle risorse. Espressioni come “cittadinanza attiva”, “democrazia partecipata”, autogestione dei “beni comuni”, protagonismo della città, sono pratiche e termini entrati ormai nel nostro linguaggio quotidiano. Ma proprio in quanto riescono raramente ad essere attuate nella pratica, essi risultano spesso, agli occhi della politica ufficiale, parole vuote, pratiche
inutili. Al contrario invece, ritrovare il rapporto tra una gestione democratica dell’ambiente urbano e l’uso delle risorse significa, più radicalmente – cioè in maniera più partecipata, e ancor di più per una città come Messina – dare nuova luce a quanto possiamo intendere
con “bene comune”: come “usare” democraticamente quello che c’è già? Come restituire alla città spazi in disuso o male utilizzati e servizi di pubblica utilità mal gestiti da privati o da amministrazioni pubbliche incapaci di salvaguardare l’interesse prioritario della
comunità cittadina? “Restituire” beni comuni.
La recente riapertura del “Teatro in Fiera”, libera restituzione alla città di un bene comune sottratto alla vita pubblica, ha risvegliato l’opinione pubblica cittadina su due gravi problemi: da una parte, il pessimo stato di conservazione in cui versano tante strutture
cittadine pubbliche, dall’altro l’opera di progressiva appropriazione di tali strutture, così come di terreni inutilizzati, non solo da parte di privati, ma anche da parte di enti pubblici. Il vero problema che infatti Messina ha vissuto in questi anni non è stato solo la
dismissione degli enti pubblici, ma anche una loro gestione essenzialmente privatistica. In questo senso, non fanno eccezione, come il caso del “Teatro in Fiera”, ribattezzato “Pinelli” ha ben messo in evidenza, né l’area della vecchia cittadella fieristica, di fatto mai
integrata nel tessuto urbano, né, in misura certamente maggiore, tutto il Waterfront. Fallita è infatti, sotto gli occhi di tutti, e soprattutto a Messina, l’idea che un certo intervento del privato nei servizi pubblici, quelli che richiamano, innanzitutto, la gestione
dei servizi fondamentali, sia l’equivalente di efficienza e buona gestione. E ancor più fallimentare si è rivelata al tempo stesso l’idea, tutta interna a questo modello economico,
per cui la gestione finanziaria dell’ambiente urbano, così come, su altre scale, delle risorse umane, economiche, paesaggistiche del Paese e della Regione, sia incompatibile con la pratica attiva della democrazia. Ed è proprio di fronte al fallimento sostanziale di
questa strategia che noi pensiamo ci sia un’altra possibilità.
Questa idea chiusa, privatistica, dove a scegliere quale sia l’utilizzo degli spazi pubblici sono solo in pochi, ancor meno quelli che decidono la loro destinazione, mentre pochissimi usufruiscono di servizi, s’infrange, oggettivamente, con un nuovo
protagonismo, non organizzato in associazioni, in cordate, cenacoli, con una irruzione di forze giovani nella vita politica della città che dell’uso comune degli spazi sociali fanno il
senso della loro libera e attiva espressione politica.
Il caso del “Teatro in Fiera Pinelli” di Messina segue infatti da vicino casi simili di “restituzione” di beni pubblici sottratti alla pubblica utilità da parte di una gestione privata e privatistica delle risorse. In città più vicine come Palermo e Catania, così come a
Pisa, Treviso, Roma, Napoli, cinema, teatri, ex-fabbriche e spazi pubblici lasciati in colpevole disuso o pronti a diventarlo sono stati “restituiti” pienamente alla città, a differenza di ciò che è avvenuto in riva allo Stretto. Come fare però se le stesse istituzioni locali, come province, comuni e quartieri, vivono ormai, a causa dei vincoli di bilancio fissati spesso senza tenere in alcun conto le realtà
locali, nell’impossibilità di “rappresentare” effettivamente i bisogni e le necessità dei
cittadini? Quali istituzioni per i “beni comuni”?
Occorrerà a nostro avviso muoversi in due direzioni.
La prima: rendere più diretto il rapporto tra istituzioni locali e cittadinanza; La seconda: le pratiche di cittadinanza attiva e di “restituzione” dei luoghi alla città
devono essere riconosciute dalle istituzioni rappresentative.
Sulla scorta di diversi esempi già istituiti a livello nazionale, riteniamo innanzitutto che il Comune di Messina debba avviare in questo senso un percorso partecipato, attraverso
l’istituzione di appositi organi consultivi del Comune, che guardino non solo alle realtà
associative cittadine riconosciute, ma anche a forme spontanee di organizzazione. Occorre cioè che attraverso una forma di regolamentazione degli spazi pubblici
riconsegnati alla libera fruizione della cittadinanza ed alla loro vocazione di bene
comune, possa essere riconosciuto quel protagonismo sociale ed autogestionario
presente nella società messinese, come è risultato evidente nella riapertura del “Teatro
Pinelli-in Fiera”.
Si tratta di attivare cioè anche a Messina, sulla linea del percorso di democrazia partecipativa recentemente avviato a Napoli, con l’approvazione di un nuovo regolamento
comunale e con l’istituzione del regolamento di un “Laboratorio Napoli per una Costituente dei beni comuni”, un “Assessorato ai Beni comuni” che sovrintenda e si faccia
a sua volta promotore di forme ulteriori di pratiche di cittadinanza, così come previsto del
resto dalla convenzione di Aarhus sulla “democrazia ambientale” del 25 giugno 1998,
riguardante l’accesso “alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi
decisionali e l’accesso alla giustizia in maniera ambientale”, convenzione ratificata dallo
Stato italiano già il 16 marzo 2001. Solo in questo modo, attraverso l’istituzione di un apposito assessorato e la presenza, in
seno alla macchina comunale, di organi consultivi aperti in cui trovino continua e libera
espressione le istanze autogestionarie dei “beni comuni”, l’amministrazione può, infatti,
da un lato allargare le maglie della propria capacità amministrativa, su basi interamente
democratiche, e dall’altro rendere ulteriormente possibile la garanzia di una reale e differenziata democraticità delle diverse pratiche di cittadinanza e di restituzione dei beni
comuni agli abitanti. Solo attraverso questa integrazione nel Regolamento comunale
dell’utilizzo di un bene comune può garantirsi da eventuali derive appropriative degli
“usi”, salvaguardando i processi di democrazia partecipativa.
Grazie a questo movimento, in secondo luogo, le pratiche di cittadinanza attiva e di
restituzione dei luoghi alla città potranno incontrare, entro questo orizzonte, la
disponibilità e il senso di una presenza proveniente dal privato.
In questo senso, rimettere in moto una gestione democratica della forma di vita cittadina
significa, dunque, anche ripensare il rapporto tra le risorse, le capacità produttive e le sue compatibilità. Significa ridefinire il rapporto che una città intrattiene con il “privato” e con
la forma-impresa per come essa si dà, sia individuale che collettiva.
Significa, ad esempio, impedire per i luoghi comuni, pubblici e condivisi, quelle pratiche
aziendali che puntano tutto su meccanismi predatori e speculativi (vedi caso “Triscele”).
Significa pensare a “luoghi comuni” – la cittadella fieristica, ad esempio – in cui la
comunità cittadina può determinare non solo destinazioni d’uso, ma anche forme di
partecipazione produttiva e di diretta presenza del privato, che possono, solo a queste
condizioni, incrociarsi con le pratiche di messa in condivisione, di libera fruizione, di autogestione e resa comune di un bene.
Riutilizzare spazi, liberare risorse, gestire democraticamente la città significa in questo
senso “restituire” alla città il proprio ambiente, e al tempo stesso riaffermare la capacità di decidere, nella maniera più condivisa possibile, le sue risorse.
Più che di “beni comuni” parleremo allora di “usi in comune”, riconoscendo il valore
sperimentale delle temporanee invenzioni urbane, immaginando processi che rivoltino il
tempo dell’abbandono dei luoghi e strutturino in maniera produttiva l’attesa di una
trasformazione degli stessi luoghi. Questo esito renderebbe possibile la costituzione di
fatto di “laboratori urbani” fatti da chi inventa e attiva i processi e utili al tempo stesso alle Istituzioni capaci di raccoglierne le invenzioni. La stessa Cittadella fieristica potrebbe
ad esempio contenere in uno dei padiglioni razionalisti soggetti a restauro un luogo
privilegiato a metà tra “piattaforma creativa” e “Urban Center”, in cui sperimentare
stabilmente le connessioni fra i pezzi di spazio fisico e di innovazione sociale, e nel quale
dibattere i temi e confrontare gli apporti di soggetti diversi.
Regolamenti d’uso in comune.
Infine, sulla scorta di altre esperienze nazionali, è possibile aggiungere un ulteriore
tassello a questa forma di reinvenzione partecipata delle istituzioni, facendo sì che la
stessa Amministrazione Comunale indichi dei modelli da seguire, ovvero dei
“Regolamenti d’uso in comune”, la cui stessa elaborazione sarebbe affidata a quegli stessi
comitati, associazioni, gruppi spontanei e singoli cittadini che si propongono una
esperienza di “restituzione”, nel quadro di quegli organi consultivi specificatamente
incaricati, dal nuovo Regolamento comunale, della selezione delle proposte, della
formulazione di Regolamenti d’uso specifici per ogni realtà, e della gestione istituzionale
sotto la supervisione di un nuovo, costituendo, Assessorato ai Beni Comuni.
Si tratterebbe pertanto, in termini giuridici, di una vera e propria estensione, coordinata
dai nuovi organi di democrazia partecipata, degli “elenchi d’uso”, già previsti dal diritto
pubblico, a luoghi e attività il cui interesse pubblico per la città è considerato rilevante e
antitetico, eventualmente, a quello determinato da restrizioni di ordine privatistico.
È evidente che, in questo senso, l’unico criterio che possa essere fatto valere per
l’elaborazione dei regolamenti è quello dell’uso in comune. Giuridicamente, si tratta
dunque di mettere mano a forme di regolamentazione che incrocino le pratiche vigenti di
cittadinanza attiva e, nello stesso tempo, promuovano ulteriori forme di partecipazione,
dei privati come di qualsiasi altro ente pubblico oltre quello proprietario, alla gestione in
comune di un bene che si costituisce, a partire dalla sua nuova pratica d’uso, come
comune.
Far entrare la “città” dove la “città” ancora non c’è, o dove è stata emarginata. Costruire le
condizioni perché “noi” possiamo restarci, e attraversarla liberamente, contribuendo alla
sua gestione democratica.
È questa la nostra idea di Messina come forma di vita in comune

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