La legge sulla “libertà di cognome”, approvata ieri in prima lettura alla Camera (deve ora passare al Senato), sembra prova evidente della veridicità del famoso aforisma di Marx, secondo il quale le vie dell’inferno sono spesso lastricate di buone intenzioni. Così, sull’altare della sacrosanta parità fra uomo e donna, si approva una legge che rischia di creare un caos senza precedenti e che un parlamentare del NCD, Alessandro Pagano, ha definito, giustamente, “legge torre di Babele”. Viene spontaneo riflettere sul fatto che ben altri dovrebbero essere i settori in cui intervenire per assicurare la perfetta parità fra uomini e donne, spesso sbandierata in linea di principio ma poi di fatto non effettivamente realizzata (pensiamo alle opportunità di lavoro, alle discriminazioni più o meno mascherate nei confronti delle donne che scelgono di avere un figlio durante la loro attività lavorativa, all’assenza di asili nido, alla violenza sulle donne, ai ricatti sessuali, ecc.). E poi crea un certo senso di smarrimento non soltanto la possibilità del doppio cognome ( del padre e della madre), ma quella che il figlio possa ad un certo punto toglierne uno o cambiarlo con quello dell’altro genitore, cosicchè avremo, ad esempio, fratelli che hanno un cognome diverso. Singolare, inoltre la norma che impone, in caso di disaccordo fra i genitori, che il primo posto sia assegnato in ordine alfabetico (non era meglio un bel sorteggio?). Finiremo tutti, a lungo andare, per chiamarci Abate, Arena, Antonucci, e così via.
Difficile che qualcuno possa mantenere nel tempo un cognome, ad esempio, come Zabrebelsky o Zanardelli o Zingarelli! Ma, a parte gli scherzi, era proprio necessario, in un momento di estrema difficoltà per le famiglie, introdurre elementi di possibili, peraltro futili, contrasti fra i genitori? Certo, “ce lo chiede l’Europa”, come si usa dire adesso. L’Europa che ci ha addirittura condannato per “violazione dei diritti umani” per non avere ancora legiferato in materia. Ma, se questi infaticabili paladini dell’eguaglianza a parole fra uomini e donne, riflettessero sul passato e sulla storia dell’umanità, forse arriverebbero alla conclusione che l’imposizione del cognome paterno si è verosimilmente affermata nel tempo non soltanto per il predominare di società patriarcali, ma anche perché secondo uno dei principi classici del diritto “mater semper certa est, pater nunquam”; e quindi anche come una sorta di responsabile consapevole riconoscimento del padre nei confronti dei figli.
Ma la Camera è solo un primo passaggio: ora si attende il parere del Senato e dopo, se favorevole, l’entrata in vigore del regolamento.
Sino ad allora, Italiani, siamo ancora “figli di papà”.
Cinzia Coscia
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