Francesca Picilli, giovanissima di Sant’Agata Militello che nel marzo 2012 uccise il fidanzato, Benedetto Vinci, di appena 26 anni, con una coltellata al torace, è stata condannata oggi dai giudici della Corte d’Assise, a 18 anni di carcere. Il Pubblico Ministero Francesca Bonanzinga, la scorsa udienza, aveva chiesto per la ragazza una pena di 24 anni.
Benedetto Vinci fu accoltellato nella notte fra il 4 ed il 5 marzo 2012, nella sua abitazione di Sant’Agata Militello. Motivi banali, fu detto, alla base del ferimento. Un ferimento che inizialmente non parve neanche tanto grave. Francesca Picilli venne arrestata per tentato omicidio, ma lo stesso fidanzato ne attenuò la colpa sostenendo che la ragazza non aveva avuto l’intenzione di ucciderlo. Vinci, ricoverato all’ospedale Cervello di Palermo, ne fu dimesso dopo una settimana. Ma il giovane morì nella notte del 14 marzo, dopo avere chattato con gli amici su Facebook, si addormentò per non svegliarsi più. L’autopsia stabilì che a ucciderlo fu la coltellata al torace che aveva provocato un aneurisma dell’arteria con conseguente rottura della stessa.
Per Picilli l’accusa fu modificata in omicidio volontario. Oggi, invece, la riqualifica del reato in omicidio preterintenzionale. Inoltre, a favore dell’imputata, l’esclusione, da parte dei giudici,delle aggravanti dei futili motivi e della minorata difesa.
Il suo difensore, l’avvocato Nino Favazzo, già pronto al ricorso in Appello, ritiene la condanna esemplare e non giusta. Il legale, infatti, attenendosi al reato di omicidio preterintenzionale, che stabilisce una pena variabile dai 10 ai 18 anni, valuta esagerato l’avere inflitto il massimo della pena ad una ragazza incensurata. Favazzo dichiara: ” La sentenza odierna presta il fianco ad una critica serrata in punto di diritto e, quindi, di corretta qualificazione giuridica. Essa si segnala, piuttosto, per la eccessività della pena irrogata, attestata nel massimo dittale. la decisione che, anche per questo non potrà che essere impugnata, suona più come sentenza esemplare che come sentenza giusta. “
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