Di “Made in Italy” nella Fiat non resta quasi nulla, neppure il cognome del presidente del consiglio di amministrazione, John Elkann, che pure è portatore del DNA del nonno, Gianni Agnelli. Il grande stratega di questo cambiamento è l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne (italiano naturalizzato canadese con residenza- guarda caso- in Svizzera), voluto fortemente proprio dal rampollo John che evidentemente ritiene di avere in comune l’essere “italiani per caso”.
Cambia sede legale, sede fiscale, cambia il cuore e pure il nome la FIAT: si chiamerà FCA (Fiat Chrysler Automobiles NV), avrà sede legale ad Amsterdam e quasi sicuramente domicilio fiscale nel Regno Unito, chiederà di essere quotata a New York, lasciando la borsa di Milano come quotazione secondaria: il fatto che, secondo quanto dichiarato nel comunicato stampa diffuso dalla Fiat, il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi dove opera, non può che stampare sui visi di tutti noi un sorriso amaro, perché questa frase è un’offesa all’intelligenza di chiunque e non merita commento alcuno. Stesso effetto produce l’affermazione dal sapore masochistico del premier Letta (Bilderberg docet et impera), secondo il quale la questione della sede legale è secondaria, perché conterebbero “i posti di lavoro, le auto vendute, la competitività e la globalità del gruppo e a questa guardiamo con fiducia perché rappresenta una modalità di una grande industria, un marchio italiano globale” (evidentemente lui si accontenta di spremere laute tasse solo dalle tasche dei povero italiano medio, pensando così di risolvere tutti problemi dell’Italia).
Così la Fiat ci saluta e se ne va, mentre tra le file della famiglia continua a serpeggiare una guerra fredda (ma non troppo) per questioni ereditarie relative all’immenso patrimonio di Gianni Agnelli tra la primogenita di quest’ultimo, Margherita (da una parte) e la madre Marella con i figli John, Lapo e Ginevra (dall’altra): sono molti a chiedersi proprio in questo momento che fine abbia fatto l’intenzione dei magistrati Eugenio Fusco e Gaetano Ruta che un anno fa scrissero che «vi sono molteplici indizi che portano a ritenere verosimile l’esistenza di un patrimonio immenso in capo al defunto Giovanni Agnelli, le cui dimensioni non sono mai state compiutamente definite». Questo dettaglio di poco conto emerse nel contesto di un procedimento penale presso il Tribunale di Torino che riguardava un’operazione in derivati per nulla limpida che nel 2005 consentì agli eredi Agnelli di mantenere il controllo della Fiat bloccando l’avanzata delle banche creditrici (condannati solo i fedelissimi di Gianni Agnelli, Franzo Grande Steevenz e Gian Luigi Gabetti, mentre le società coinvolte, a cominciare da Ifi-Ifil – oggi Exor- e l’accomandita di famiglia assolte- “stranezze” della Giustizia italiana). Paolo Revelli, ex manager di Morgan Stanley in una sua testimonianza rivelò l’esistenza di un conto in svizzera tra gli 800 milioni e il miliardo di euro e del resto la magistratura da anni tenta inutilmente di metter mano su conti che schermerebbero miliardarie provviste della famiglia Agnelli anche in Liechtenstein, senza alcun successo perché manca la collaborazione da parte di quei Paesi.
Agli occhi dei poveri mortali sa di miracoloso come questa famiglia titolare di società quasi sempre in bilico sul baratro sia straricchissima e si sarebbe potuta permettere l’ulteriore lusso di accumulare e portare impunemente ingenti capitali all’Estero: in tutti gli italiani “di buona volontà” monta la rabbia pensando che costoro ci facciano uno sberleffo e se ne vadano altrove, dopo aver spremuto tutto ciò che potevano dall’Italia, tra lotte con i sindacati (che sapevano tanto di strategico) e conseguenti più che lauti aiuti di vario tipo da parte dei Governi nostrani che si sono succeduti, dopo aver tranciato qui e là un bel numero di lavoratori, averne messo una caterva in Cassa integrazione traballante e aver chiuso stabilimenti (e qualche ben informato pensa, a buon motivo, che le chiusure di stabilimenti e i tagli non siano finiti qui).
In Sicilia è ancora cocente il danno provocato dalla chiusura di Termini Imerese, dopo 41 anni di attività, e la disperazione degli oltre 2000 lavoratori, dei loro famigliari e di tutti coloro che lavoravano nell’indotto e le loro famiglie non si è spenta (facciamo un conto approssimativo nel complesso di quasi 10mila persone?). Questo è il dramma che si è consumato ogni volta che una grande azienda è venuta nel Sud ad impiantare un’industria con i soldi della Cassa per il Mezzogiorno, tenendo un comportamento che ricorda quello degli stupratori: si son beccati i soldoni, hanno stravolto il territorio, hanno convinto i contadini ad abbandonare le campagne per diventare operai e, fatti i loro comodi, al momento opportuno se ne sono andati, lasciando desolazione e il nulla.
La Fiat aveva all’epoca un passivo di 150 milioni di euro nel settore auto e rischiava di essere acquisita dall’IRI quando, per nulla casualmente, gli fu offerta dal Governo la possibilità di prendere 250 miliardi di lire dalla Cassa per il Mezzogiorno e Termine Imerese fu la prima di questo esperimento che ha comportato nel lungo termine un vero disastro per l’economia dell’Isola, fino a quel momento quasi tutta incentrata (con successo) sull’agricoltura.
L’essere in passivo per la Fiat non era certo un caso isolato, né patrimonio del passato ed è invece un lifmotiv che l’ha accompagnata fino ai nostri giorni e non si può certo parlare di sfortuna, perché sono state le scelte dei vari manager che si sono succeduti ad averla sempre tenuta in bilico tra il baratro e la salvezza. Che dire, solo per fare un esempio, del fatto che le autovetture prodotte a Termini Imerese venivano (fino a due anni prima che chiudesse) imbarcate a Catania, portate al Nord e poi riportate al Sud per essere vendute (questo “giochetto” aumentava i costi per ciascuna macchina di oltre 1000 euro)? Eppure Marchionne aveva dichiarato a suo tempo a suon di fanfare che aveva “grandi progetti” per la Sicilia e dove sono finiti? Con quella bocca può dire ciò che vuole, perché all’italo-canadese in divisa “casual- pull blu” le parole non costano nulla e sa solo “carta canta” (e a volte neppure).
In questo momento, intanto, dopo il comunicato ufficiale del trasloco armi e bagagli, unitamente alla notizia che non saranno distribuiti i dividendi (per la gioia di coloro che hanno acquistato azioni Fiat), il titolo a Piazza Affari è stato sospeso per eccesso di ribasso e poi riammesso, ma continua a perdere, ma ciò che conta per Marchionne (ad Elkann glielo spiegherà dopo con calma e facendogli un disegnino) è aver abbassato l’indebitamento della Fiat, da lui stesso prodotto attraverso queste operazioni.
Per spezzare una lancia a favore del gruppo Fiat (e lasciando da parte questioni morali che nel mondo degli affari sono una chimera), perché mai, avendone la possibilità, non sarebbe dovuto fuggire via a gambe levate da un Paese che ha una pressione fiscale effettiva che oscilla tra il 53 e 63% contro la media europea che è pari al 22,75%, nel quale le procedure amministrative sono infinite, complesse, zeppe di lungaggini e di approssimazione e dove per aver “giustizia” bisogna aspettare secoli?
Enrico Letta, quasi in contemporanea alla notizia della fuga del gruppo Fiat all’estero, ha dichiarato che andrà a cercare investitori nei paesi arabi: evidentemente pensa che tra le miliardarie teste coperte da kefiah ve ne possa essere qualcuna affetta da pulsioni masochistiche o, in preda a ad una crisi mistica, tesa a beneficiare un Paese europeo che ha la più alta concentrazioni di basi Nato e bandiere americane. Cosa potrà mai offrire a costoro il nostro premier non è facile da comprendere.
Vicky Amendolia
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