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Maurizio Lento “assolto” su Fb. Quel caffè bevuto col boss e mancate trascrizioni che lo incastrano

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maurizio lentoPer un poliziotto indagato ce ne sono 100, 200, 1000 e più che lo difendono. L’arresto di Maurizio Lento – dirigente della sezione Volanti di Messina, giovane funzionario in carriera – avvenuto ieri con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ha scosso i benpensanti e smosso Facebook. Gli amici, i colleghi di questo poliziotto, proprio sulle pagine del social si sono stretti in una cordata di solidarietà. Compatti nel sostegno al loro capo, o parigrado o semplicemnte amico, non danno peso alle accuse. E lo scrivono con rabbia, dolore, speranza e fiducia che nel proseguo dell’attività di magistratura, quella di Catanzaro, la verità, quella in cui loro credono fermamente, venga fuori: il loro amico Maurizio è poliziotto di grande onestà, incorrotto. Unico passo falso- sostengono – la giovane età che non gli ha consentito di valutare che un caffè con il boss dell più grande famiglia della ndrangheta era meglio non berlo. Era in Calabria, Lento, quando da capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia -come riporta l’ordinanza -avrebbe, con omissioni e depistaggi nelle sue indagini, favorito il clan Mancuso, uno dei più potenti in zona. Non era solo- sostiene l’accusa- in questa “impresa di favori”. Con lui anche il suo vice, Emanuele Rodonò, finito nella stessa inchiesta, accusato di uguale reato.
“I due- scrive il gip sull’ordinanza – nel periodo in cui hanno svolto le loro funzioni (2009-2011) non hanno mai ritenuto di avviare alcuna indagine su quella che era ed è la più pericolosa e sanguinaria cosca di ‘ndrangheta operante sul territorio calabrese”.
Il suo capo è Pantaleone Mancuso, dagli investigatori ritenuto organizzatore della spietata ala armata del clan, imputato nel processo “Gringia-Dietro le Quinte”, ma già coinvolto nelle inchieste “Black Money” e in quella sulla presunta commissione di un attentato ai danni di una persona non ancora identificata con certezza. Dallo scorso dicembre si trova ristretto al regime carcerario del 41 bis. Personaggio di grosso calibro, dunque,quello cui sono considerati collegati Lento e Rodonò. Ebbero un filtro- a detta dell’accusa- in questo collegamento, un avvocato ritenuto affiliato alla cosca Mancuso, anche lui arrestato: Antonio Galati, da tempo legale dei Mancuso.
“Abile e paziente opera” – viene definita la sua nell’ordinanza del gip Mallace – che consentirà di stabilire rapporti tra ndrangheta e organi investigativi e giudiziari al fine di favorire attività criminali e fornendo informazioni riservate, garantendo “la possibilità di continuare a operare in condizioni di massima tranquillità e clandestinità”. Galati sarebbe dunque il trait d’union tra i boss e le istituzioni, secondo gli inquirenti, per i quali la “rete” di rapporti intessuta dal legale sarebbe, prevalentemente composta da personalità istituzionali, poliziotti e magistrati. Ne rimarrebbe fuori l’Arma dei carabinieri. Lo dimostra il tentativo di collaborazione di Santa Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, che nel marzo 2011 si era rivolta proprio ai carabinieri per vuotare il sacco sulle attività criminali del marito. Un mese dopo la donna muore: suicidio per ingestione di acido. Tre giorni dopo quella morte, sarà lo stesso Maurizio Lento a notificare al boss vedovo un atto relativo al decesso della moglie.
All’incontro sono presenti Galati, Rodonò e un sostituto commissario che, successivamente sentito come persona informata sui fatti, racconta: “Dopo aver notificato l’atto a Mancuso, quest’ultimo si avvicinava al dottor Lento, al dottor Rodonò e all’avvocato Galati, rimanendo con loro appartati a una decina di metri dall’auto di servizio”.
Poi il saluto, ma poco dopo – sempre secondo il racconto del sostituto commissario – Mancuso, al telefono con Galati, invita i due poliziotti a prendere un caffè nella sua abitazione. Intercettazioni confermerebbero che l’allora capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, quel caffè lo bevve a casa del boss.
E poi ci sono le condotte omissive e di depistaggio a carico dei due investigatori della Polizia. Quelle che il gip descrive:
“rafforzanti le capacità intimidatorie e operative del sodalizio”. Il giudice di Catanzaro, al proposito, scrive di una indagine del 2011, dei carabinieri di Vibo, sulle attività della cosca Tripodi. Nel corso di intercettazioni si intersecano anche quelle effettuate dalla squadra Mobile in relazione a un danneggiamento. I carabinieri notano che alcune conversazioni che mostrano che la vittima del danneggiamento era protetta dai Mancuso non erano state trascritte.
C’è tutto questo alla base del provvedimento cautelare che ha portato in carcere Maurizio Lento. Tutto questo non basta a chi continua a credere che l’amico Maurizio sia rimasto vittima di un ingranaggio investigativo che non tarderà ad essere smontato.

Patrizia Vita

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