Le estorsioni “porta a porta” a imprenditori e commercianti: 10 condanne

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Prime sentenze del processo di primo grado sulle estorsioni ‘porta a porta’ del clan di Camaro ai danni di commercianti ed imprenditori edili. Si tratta del processo scaturito dalla “operazione Richiesta”, del dicembre 2013.

I giudici della prima sezione penale del tribunale hanno deciso 10 condanne e 5 assoluzioni per i 15 imputati. Due i procedimenti riuniti in un unico processo, uno in abbreviato condizionato che riguardava 11 persone e l’altro in ordinario per 4.
Le condanne: Francesco Di Biase 10 anni; Sebastiano Freni 8 anni e 8 mesi; Antonino Genovese 10 anni e 6 mesi; Raffaele Genovese 6 anni e 10 mesi, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa; Vito Genovese 2 anni e 8 mesi, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa; Giovanni Lanza 6 anni e 10 mesi; Francesco La Rosa 11 anni e 4 mesi; Gianfranco La Rosa 9 anni e 4 mesi; Salvatore Triolo 8 anni e 4 mesi, con l’esclusione dell’aggravante mafiosa; Maria Genovese 5 anni con la concessione delle attenuanti generiche.
Scattata all’alba del 17 dicembre 2013, nell’ambito dell’operazione Richiesta furono 12 le ordinanze di misura cautelare eseguite dalla Squadra Mobile. L’accusa, a vario titolo, era stata associazione mafiosa, con l’aggravante della disponibilità di armi, e di una serie di reati individuati in estorsioni, tentate e consumate, commesse con l’aggravante del metodo mafioso, detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, danneggiamenti, furti.

L’indagine, nata nel 2012, aveva portato alla luce un’organizzazione criminale di tipo mafioso, con base al rione Camaro, ma che si estendeva anche alle zone limitrofe. L’estorsione, a detta dell’Accusa, era la fiorente attività del gruppo criminale: vittime erano commercianti e imprenditori edili.
Ai titolari di cantieri e ditte operanti nel settore, veniva avanzata la “richiesta” di assunzioni e denaro. In caso di “resistenza” il gruppo passava alle ritorsioni: in un’occasione avevano incendiato un escavatore all’interno di un cantiere.

Il gruppo criminale, sostenne l’accusa, aveva stabilito alleanze e accordi con altri gruppi mafiosi della città. Provvedeva anche alla distribuzione degli utili tra i vari “associati”, ma senza dimenticare gli ” amici” detenuti, cui era destinata una parte degli illeciti proventi.

Veniva utilizzato il metodo “a tappeto”: tutti gli esercenti della zona trovavano biglietti minatori con l’invito a contattare “amici”. Dalle vittime, oltre il pagamento del pizzo, pretendevano anche merce o alimenti.

Tra i destinatari delle “attenzioni” dell’organizzazione anche l’ex calciatore del Messina, Carmine Coppola,finito nel mirino del clan quando stava per aprire un impianto sportivo in città.

L’indagine della squadra Mobile era stata supportata anche dalle dichiarazioni di alcuni pentiti: Gaetano Barbera, del clan di Giostra, e Massimo Burrascano, del clan di Mangialupi.

La pericolosità del gruppo, inoltre, era rafforzata dalla disponibilità di armi. Anche lo spaccio di sostanze stupefacenti tra le attività dell’organizzazione.

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