Le processioni dei morti e i riti in Sicilia e nel Sud Italia
Al di là delle celebrazioni calendarizzate, il culto dei morti è sempre presente. In alcuni paesi della Calabria e della Sicilia, per esempio: «In molte case – ci spiega il professor Mauro Geraci – ci sono ancora gli “altarini domestici”, angoli dedicati ai defunti con fotografie e lumini che, a volte, sorgono nei luoghi in cui il defunto soleva stazionare».
Durante la Festa dei morti, però, come dicevamo, il confine tra l’al di là e l’al di qua si fa più sottile, i morti hanno il permesso di tornare, il contatto tra vivi e defunti è permesso, seppur controllato a livello rituale e simbolico. Si tratta, spiega Geraci «di un momento ritualizzato, calendarizzato, che non straborda. Uno dei problemi principali – prosegue – è far in modo che la vita non venga invasa dalla morte. Se i morti ritornano, devono essere quelli buoni, non quelli cattivi che creerebbero un danno. Il 2 novembre è quindi un momento per alimentare in forma protetta, benefica, salvifica, il rapporto tra i vivi e i defunti, Questa è l’interpretazione che ne hanno dato gli antropologi Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana studiando l’ideologia della morte nella società contadina del Sud».
Ideologia nella quale si inseriscono le Processioni dei morti che, si narra, avvengono in questa data: «A Catania – racconta il prof. Geraci –, si dice che i morti il 2 novembre attraversino tutti i vicoli e le stradine con u coddu di filo, con il collo sottile sottile come un filo; rappresentazione della congiunzione sottilissima che c’è tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Lo stesso Ponte di San Giacomo, che, secondo il mito, i defunti devono attraversare per arrivare nell’al di là, è “sottile come un capello”».
Questa processione dei morti del 2 novembre – credenza diffusa anche a Messina e in provincia, ma in generale in tutta la Sicilia – parte dai cimiteri per arrivare nelle case: «C’era l’usanza – e c’è tutt’oggi in alcune zone – di preparare una cena, un primo, un secondo, l’acqua, e apparecchiare per il defunto, in attesa del suo passaggio. Una volta sistemato tutto, si andava a letto sapendo che il defunto sarebbe entrato in casa nel corso della notte, si sarebbe rifocillato e la sua anima si sarebbe placata, e sarebbe stata riconoscente alla comunità dei vivi». Dall’alba, il confine si ristabilisce e tutto si ripete l’anno successivo.
Il cibo dei morti, dai “morticini” ai “pupi di zucchero”
In tutta la Sicilia, ma anche in altre parti d’Italia e del mondo, nel giorno dedicato ai defunti (e in generale tra ottobre e novembre) si usa consumare il “cibo dei morti”, elemento tradizionale ricorrente. Gli ingredienti alla base, ci spiega il professor Mauro Geraci, sono più o meno gli stessi ovunque: «Si tratta di cibi a base di zucchero, di miele, nocciole, elementi della conservazione, come i fichi secchi, le castagne, cibi autunnali che diventano simboli di valori domestici e familiari che possono che possono essere custoditi, conservati».
La credenza, diffusa in tutta la Sicilia, è che i morti lascino dolci – come i pupi di zucchero a Palermo o i morticini a Messina – dietro le porte delle case, sotto i letti dei bambini, come dono protettivo, propiziatorio, benedetto. «E quando questi alimenti – chiarisce Geraci – assumono sembianze antropomorfiche, come le ossa dei morti o i biscotti di miele e farina a forma di scheletro, la loro valenza si raddoppia: da un lato sono cibi dei morti, cioè quelli che i morti portano ai vivi, dall’altro sono anche immagini che servono a tenere lontani gli spiriti maligni, svolgono una funzione magica».
Dolci di questo periodo e di Natale sono anche i mastrazzola di Militello Val di Catania, fatti di farina e vino cotto; in altri paesi siciliani troviamo invece i mustazzola fatti di zucchero, mandorle, limone, cannella, miele e altri aromi.
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