La Vittoria di ogni giorno (l’infanzia)

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Quando eravamo piccoli, noi degli anni ’80, si stava tutto il pomeriggio a casa, al massimo si poteva sperare, dopo ore di richieste e convincimenti, che la mamma ci facesse scendere in cortile a giocare a palla.

Certamente non avevamo i pomeriggi organizzati sin dai tempi dell’asilo con lezioni d’inglesecinesespagnolomusicacalcettoschermada

nzaevattelappesca.

Ed ancora, non era così consueto che si festeggiasse il compleanno. C’era chi poteva permetterselo e chi festeggiava in famiglia.

Il festeggiamento “standard” per me, consisteva nel poter finalmente mangiare una cotoletta strafritta con patatine strafritte, al posto della pietra arrosto che la mamma spacciava per “fettina di carne”, propinandomi quotidianamente menate sulla salute del fegato e sui danni della frittura nel corso del tempo.

Poi, una bella torta ed il regalo. Ed ero davvero, davvero, ma davvero felice…ma questa è un’altra storia.

Comunque dicevo, saltuariamente, uno dei miei compagni di classe decideva di festeggiare il suo compleanno. E quello era il momento dell’assoluta felicità, per me, perché finalmente si usciva di casa, sempre con il benestare della mamma.

La preparazione iniziava dal primissimo pomeriggio. Tutti gli sforzi si concentravano nello studio del giusto look, finalmente potevo mettere da parte le camicie marroni smesse da mio fratello, riutilizzate da mia sorella e smesse anche da lei per indossare uno dei due maglioni nuovi e costosissimi dei quali ciascuno di noi figli Gangemi aveva diritto all’acquisto una volta l’anno durante i saldi.

Diritto all’acquisto che ovviamente, tuttavia, prescindeva dal diritto alla scelta relativa alla loro foggia ed al loro colore o modello, coattivamente demandata alla mamma.

Una volta completata la vestizione, cominciava il conto alla rovescia per partire da casa.

Prima si doveva sistemare la stanza, poi fare i compiti, poi aspettare chissà quale adempimento da svolgere la cui urgenza era direttamente proporzionale all’isteria che cresceva nel mio animo, ma poi, finalmente, la mamma prendeva l’auto e mi accompagnava alla festa.
Una volta, in particolare, accadde che la mamma si impegnò ad accompagnarmi ad una festa che, come consuetudine negli anni ’80, si sarebbe svolta non certo in un locale al centro della città come si usa adesso, ma nel salone di un appartamento, stanza alla quale era vietato severissimamente l’accesso nel corso degli altri 364 giorni dell’anno.
Questo appartamento, era sito sul viale Regina Elena. Trattasi di una distanza di pochi km da casa mia, eppure per la mamma era un luogo irraggiungibile, una meta esotica, una capitale europea, il paradiso forse. Questo perché mia madre, purtroppo, non aveva molta dimestichezza alla guida e, per lei, percorrere una strada che non avesse mai percorso equivaleva a risolvere un problema di fisica quantistica.

Comunque, come fanno tutte le mamme per accontentare i figli, anche lei, quella volta, ci mise buona volontà e ci imbarcammo in quell’impresa che sulla carta sembrava titanica.

Papà spiegò a mamma, con tanto di schizzo su carta, dove si trovava la casa della mia compagna di classe, prendemmo il regalo e partimmo.

Il senso di euforia che mi pervadeva era talmente imponente e straripante che, durante il tragitto, ridevo entusiasta ad ogni semaforo.

Tuttavia, la mamma, manifestò apertamente la disapprovazione a tanta gioia, mollandomi una bella sberla che intimasse il silenzio al fine di favorirle la concentrazione alla guida.

Io tentai di contenere la mia contentezza e la lasciai concentrare. Tutto sembrava andare per il meglio, solo il leggero ritardo per via del traffico mi preoccupò.

Sapevo che, se fosse calato il sole, la mamma si sarebbe incasinata la vita ancora di più per via dell’accensione delle luci di posizione, la cui ubicazione le era sconosciuta.

La festa doveva cominciare alle 17. Io da poco avevo appreso a leggere l’ora e vidi che erano già le 18.

Dal disegno di papà mi resi conto che eravamo ancora lontani e fu in quel preciso istante che mi affidai per la prima volta a Santa Rita che mia nonna, da sempre, mi diceva essere la santa dei disperati.

Il tempo passava impietosamente e, mentre la mia euforia si era trasformata irrimediabilmente in senso di malessere, incontrammo sulla nostra strada quello che sarebbe stato l’ostacolo più periglioso di qualsiasi altro. Una salita con pendenza 45 gradi.

Ricordo che la mamma partì alla grande, poi a metà salita dovette fermarsi a causa di un’auto ferma davanti a noi, tirò il freno a mano, mise la prima, digrignò i denti e spinse l’acceleratore a manetta.

Stille di sudore le scendevano dalle tempie e per un attimo credetti che ce l’avrebbe fatta, ma niente.

Scivolammo inesorabilmente a marcia indietro e tornammo all’inizio della salita. Mi guardò con gli occhi del fallimento, ricordo che pensai che alla fine fosse meglio tornare vive a casa e la guardai senza delusione. Le dissi che ormai tanto era tardi per andare alla festa.

La mamma divorata dai sensi di colpa mi disse di tenere il regalo per me, fu l’unico regalo che ricevetti da bambina in un periodo diverso dal Natale.

Quella fu una delle tante volte nella mia vita in cui capii che desiderare una cosa è forse più intenso e gratificante che ottenerla.

Vittoria Gangemi

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