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“Re della terra selvaggia”: dalla piccola Hushpuppy, la grandiosità dell’universo

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re-della-terra-selvaggiaNon si può rimanere indifferenti di fronte all’innocenza e al coraggio della piccola protagonista di Re della terra selvaggia, film uscito nella sale ormai nel 2012. La sua storia ha il sapore del ritorno all’humus, alle radici di un’umanità più vera e poco mediata da convenzioni. Una bimba di soli sei anni, interpretata da una straordinaria Quvenzhané Wallis, ci guida in un viaggio liberatorio che prende le distanze da stitiche consuetudini sociali e profili ingessati.

Una pellicola di contenuto, l’opera prima del regista Behn Zeitlin, che si è fatta notare in un panorama cinematografico sempre più avvezzo agli effetti speciali. È, seppur non proprio rivoluzionaria dal punto di vista della narrazione, ricca di incastri e istanti che esplodono in un pathos commovente. La telecamera non effettua grandi movimenti, il punto focale in cui tutto converge sono le espressioni della piccola Hushpuppy, attraverso gli occhi della quale il regista ci presenta rituali e dinamiche di questo “mondo selvaggio”. Tanti i primi piani da cui emerge la fermezza d’animo di questa creatura fragile che, in bilico tra realtà e fumose fantasie, dovrà affrontare le sue ataviche paure e finalmente diventare “grande”. «Gli animali forti sanno quando il tuo cuore è debole — afferma la piccina —, questo gli fa venire fame e cominciano ad arrivare». Ma se affrontate con la dovuta audacia, le stesse paure possono tramutarsi in vigore. Una strada lastricata da disavventure, dolori (l’assenza della mamma, la malattia del padre), e piccole gioie che Hushpuppy percorrerà in buona parte insieme all’insolito, e a suo modo affettuoso, papà. Un uomo che la spronerà, spesso duramente, a cavarsela da sola nella “Grande Vasca”, la terra che chiamano casa, dove tutto è precario e selvaggio, ma anche il posto in cui ci sono «più vacanze di tutto il resto del mondo». La “Grande Vasca” è un territorio al limite, sempre soggetto a essere inghiottito dall’acqua durante i tifoni che si abbattono violenti, separata dal resto del mondo da una diga costruita dagli uomini delle città di cemento, circondate da volute di fumo grigio. “La terra asciutta”, in senso dispregiativo, la chiama la gente di Hushpuppy.

I bizzarri personaggi che affiancano la protagonista — quasi “cavalieri sdentati” di un paese in bilico — non sono affatto anime rozze e pre-sociali. Al contrario, rappresentano e difendono il principio di una scelta che, se li avvantaggia nel loro essere una comunità, li penalizza sotto il profilo della sicurezza. Ma non per questo preferirebbero vivere sulla terraferma e osservare, al riparo da pericoli, il travaglio di chi rimane avviluppato nella furia del mare.  Questo vale almeno per chi tra loro si mostrerà irremovibile: immergersi  nella precarietà e accettare, senza sfuggirla, la fragilità sarà l’atto coraggioso da compiere senza riserve  e da riconfermare. Come i giunchi del filosofo Blaise Pascal, i personaggi del film lasciano che il vento infausto li pieghi senza spezzarne la volontà. Un inno alla transitorietà e alla bellezza,  insomma, nella consapevolezza che tutte le cose del mondo si trasformano e partecipano alla vita dell’universo.

E lì, nella “Grande Vasca”, la piccola Hushpuppy lo sa che tutto è connesso, ogni cosa a suo modo e tutte quante indispensabili: «L’intero universo si regge sull’incastro perfetto di tutte le cose, se un pezzo si rompe, anche il più piccolo, tutto l’universo si rompe». Perché a volte tornare al mondo selvaggio non significa necessariamente regredire a una pre-socialità animale dove l’umanità, edificata pezzettino su pezzettino, assume la forma di una forza bruta e cieca alle ragioni del cuore, quanto piuttosto riscoprire una dimensione perduta che in qualche modo ci appartiene, anche se pare che lo abbiamo dimenticato. 

Giusy Gerace

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